Con la vittoria di Obama e la
campagna elettorale americana alle spalle, è ora possibile discutere su basi più
realiste la riapertura di un dialogo con l’Iran sulla questione nucleare. E’
più semplice fare delle previsioni che non risultino più influenzate dai meri
calcoli tattici in vista del consenso, ma siano il plausibile esito di una
strategia di lungo periodo. Durante la campagna elettorale, e per tutto il 2012, non si è fatto altro che parlare di un possibile attacco all’Iran, sostenuto in
particolar modo da Israele e dal suo premier Benjamin Netanyahu. Quasi che la
minaccia continua della guerra dovesse tradursi concretamente in una operazione
militare vera e propria. In realtà, benché la comunità internazionale abbia
addirittura assistito allo show del premier israeliano all’ultima Assemblea
generale delle Nazioni Unite, nessuna azione è stata mai intrapresa.
Wednesday, December 19, 2012
Wednesday, November 21, 2012
Israele, Iran e Stati Uniti fra gli obiettivi di Netanyahu nel conflitto di Gaza e l’opportunità di Obama.
La decisione di bombardare la
Striscia di Gaza, presa a metà della scorsa settimana dal governo israeliano, non
può essere letta semplicemente come una rappresaglia legittima, ancorché
sproporzionata, in risposta ai lanci di razzi Al-Qassam che in precedenza
avevano colpito il territorio israeliano. Dopo sette giorni dall’inizio della
controffensiva, il tributo di sangue è già altissimo. I morti fra i soli palestinesi
superano le 100 unità, a cui si aggiungono 700 feriti[1].
Nel lancio di missili ha perso la
vita Ahmed Al-Jabaari, il capo della branca militare di Hamas, l’organizzazione
islamonazionalista che controlla la Striscia dal giugno 2007 in seguito all’estromissione
di Fatah. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha richiamato 75.000
riservisti, allo scopo di approntare una operazione di terra entro 72 ore qualora
Hamas non ottemperi al soddisfacimento di sei richieste: una tregua di almeno
15 anni; l’immediata cessazione del traffico di armi ed il trasferimento di
queste a Gaza; stop al lancio di razzi da parte palestinese e stop agli
attacchi ai soldati presenti al confine con Gaza; diritto di Israele di dare la
caccia ai terroristi in caso di attacco o se ottiene informazioni di un attacco
imminente; il valico di Rafah rimarrà aperto ma gli attraversamenti del confine
fra Gaza e Israele rimarranno chiusi; esponenti politici dell’Egitto,
capeggiati da Mohammad Morsi, saranno i garanti di qualsiasi accordo per il
cessate il fuoco. Ciò vuol dire che l’accordo sarà sostenuto dall’establishment politico egiziano invece
che da quello di sicurezza[2].
Friday, August 31, 2012
La partita decisiva per il potere a Tehran
Quando manca ormai meno di un anno alle elezioni presidenziali, il sistema politico della Repubblica
Islamica vede sempre più marcata la polarizzazione fra le due principali forze
di regime, quella facente capo alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei e
quella stretta attorno al Presidente Mahmoud Ahmadinejad. La tornata elettorale
per rinnovare i 290 deputati del Majlis
(Parlamento) della scorsa primavera ha confermato la vis preponderante della fazione principalista di Khamenei, che
ormai controlla tutte le istituzioni fondamentali del paese. Un dominio che non
sta più solo sulla carta (la Costituzione emendata nel 1989 assegna già alla
Guida le prerogative più estese), ma che è potere di fatto.
Saturday, April 21, 2012
Ankara, Tehran e gli equilibri in Medio oriente
Per la prima volta dopo ben quindici
mesi dall’ultimo incontro ufficiale risalente al gennaio 2011, le principali
potenze mondiali si sono riunite sotto la forma del 5+1 per trattare
direttamente con l’Iran sulla questione nucleare. L’andamento del meeting, tenutosi a Istanbul il 14
aprile, padrona di casa la Turchia, lascia cautamente sperare in una
possibile ancorché lontana soluzione dell’affaire.
L’Iran sta attraversando la fase
probabilmente più complicata
della situazione di
isolamento internazionale in cui si trova da anni. Nello scorso ottobre, dopo
la pubblicazione del dossier sul nucleare da parte dell’AIEA, una serie di
eventi infausti hanno esercitato ulteriori pressioni su Tehran. Fra le altre cose,
il vertice del potere é stato accusato di aver ordito un complotto per
assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti. La diffusione di questa
notizia, tutta da provare e probabilmente infondata, ha incrementato la
tensione, aumentando la paura nei confronti del regime, sospettato negli ultimi
anni, specialmente quelli della Presidenza Ahmadinejad, di avere avviato un
programma nucleare a scopi militari.
Thursday, March 15, 2012
La politica iraniana tra elezioni parlamentari e prospettive future
Il risultato delle elezioni
parlamentari iraniane del 2 marzo non ha tradito le attese. Il blocco che fa
capo alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei ha ottenuto una facile vittoria
sbaragliando la concorrenza, come al solito resa monca ex-ante dal setaccio usato dal Consiglio dei Guardiani.
Quest’organo, i cui membri sono designati per metà dalla medesima Guida e per
l’altra metà dal vertice del potere giudiziario, ha infatti il potere di
sindacare l’ammissibilità dei candidati che si presentano alle elezioni: se
questi non sono graditi al regime, vengono esclusi dalla competizione
elettorale.
In verità, lo scontro si presentava
già limitato, semplificando, a due soli gruppi: il blocco dei conservatori
tradizionalisti legati a Khamenei e la fazione del Presidente Ahmadinejad. Una
partita che, quindi, ha rispecchiato gli equilibri interni al panorama politico
della Repubblica islamica così come si sono andati strutturando negli ultimi tre
anni. Dalla competizione, si trovavano sostanzialmente fuori i riformisti, già
pesantemente emarginati dalla vita politica del paese in seguito alle
contestatissime elezioni presidenziali dell’estate 2009.
Friday, February 24, 2012
L'Iran prende tempo
Termina con un dichiarato
insuccesso la missione dell’AIEA (l’ente delle Nazioni unite per l’energia
atomica), impegnata a Tehran per due giorni (20-21 febbraio) con lo scopo di
discutere e trovare una soluzione alla crisi innescata dal programma nucleare
iraniano[1].
L’iniziativa avviene per la seconda volta nel corso delle ultime settimane[2].
La precedente visita, anch’essa capeggiata dal vicedirettore generale dell’AIEA
Herman Nackaerts, si era svolta in un clima positivo generato dalla
disponibilità iraniana ad aprirsi cautamente all’Occidente, pur lasciando
irrisolte diverse questioni che nemmeno stavolta hanno ottenuto risposta.
Il principale motivo di «delusione»[3]
riguarda il diniego opposto dalle autorità iraniane alla richiesta di visitare
il sito nucleare di Parchin, nei pressi di Tehran, sospettato di ospitare strutture
in cui sarebbero stati effettuati test militari. E’ probabile che in seguito a
questo nulla di fatto, l’AIEA tenterà di organizzare un’ulteriore visita, ma
per il momento la situazione rimane statica.
Thursday, February 16, 2012
L'Iran nel mirino
Quanto seriamente occorre prendere
in considerazione le recenti minacce da parte israeliana di attaccare
militarmente l’Iran, colpendo i suoi siti nucleari? Siamo davvero sull’orlo
della terza guerra mondiale, come alcune voci cominciano ad insinuare? Per la
verità, la retorica dei governanti dei due paesi, che ha sempre assunto toni
elevati – dalla Rivoluzione del 1979, si intende – ha più di una volta lasciato
presagire uno scontro militare che tuttavia non è mai esploso. Un conflitto
armato fra Israele ed Iran è sempre stato nell’aria negli ultimi anni,
soprattutto in seguito al giorno 11 settembre 2001, quando alcune teorie in
voga negli ambienti del Washington
consensus hanno fatto di tutto l’Islam un fascio, confondendo malamente lo
sciismo col sunnismo, ma soprattutto il jihad
globale con un islamismo di Stato il cui risentimento verso l’Occidente altro
non era che la manifestazione più infuocata di una vieppiù pragmatica volontà
di emanciparsi da un isolamento economico e politico soffocante.
Sappiamo com’è andata ed il
penultimo libro di Trita Parsi, Treacherous
alliance[1],
ce lo spiega assai bene. Tehran aveva tentato a più riprese di instaurare un
dialogo con Washington sforzandosi di volgere a proprio favore l’atout rappresentato dalla ricostruzione
in Afghanistan, in seguito all’invasione militare atlantica dell’autunno 2001.
All’epoca, a guidare l’esecutivo c’era ancora, al suo secondo mandato, il
riformista Khatami, ovvero l’uomo che più di tutti aveva lanciato segnali di
distensione all’America, orientando il discorso politico internazionale al
«dialogo fra civiltà». Niente da fare. Gli Stati Uniti erano sembrati troppo
scossi dalla più grande tragedia che la televisione avesse mai documentato in
diretta e l’Amministrazione Bush, come testimoniato dai politologi americani
John Mearsheimer e Stephen Walt[2],
risultava eccessivamente influenzata da un gruppo di neoconservatori oltremodo
vicini agli imperativi della sicurezza nazionale di Israele. Addirittura,
puntare contro l’Iran, invece che contro l’Iraq di Saddam, era inizialmente
nelle intenzioni di Gerusalemme.
Ahmadinejad all'Onu. La politica estera iraniana tra retorica e pragmatismo
(posted on September 24th, 2011 at http://www.come2discuss.net/)
E’ nel bel mezzo dello scontro al
vertice per il potere in Iran che Mahmoud Ahmadinejad prende parte alla
spedizione iraniana per partecipare ai lavori della 66ma Assemblea Generale
delle Nazioni Unite. Il discorso pronunciato giovedì 22 settembre[1],
durato poco meno di mezz’ora, è stato condito dalla retorica che tipicamente
contraddistingue i discorsi del Presidente iraniano. Un insieme ben congegnato
di sentimento antiamericano e terzomondismo che ha portato molte delegazioni
occidentali a lasciare anzitempo l’aula; per giunta, com’era da attendersi,
Israele non ha nemmeno presenziato.
Ma, se ascoltato con pazienza e
fino alla fine, il discorso di Ahmadinejad non si configura esattamente come un
ideologico e scriteriato attacco all’America. Soprattutto, occorre tenere conto
non solo dell’attuale scontro al vertice interno all’Iran – da cui Ahmadinejad
tenta in tutti i modi di uscire vincitore, sfruttando anche i consessi
internazionali – ma della ormai più che trentennale vicenda politica della
Repubblica Islamica. Fin dal 1979, e soprattutto durante gli anni Ottanta, la
politica estera iraniana è stata contrassegnata da una buona dose di
panislamismo che, a fasi alterne, è stato affiancato da un necessario e corposo
ricorso al pragmatismo – in maniera più che evidente durante la Presidenza
Rafsanjani (1989-1997). L’uso politico della religione, ovvero il ricorso alla
ideologia islamista, è stata una risorsa usata sapientemente dall’élite al potere per fronteggiare il
grado di isolamento internazionale a cui è sottoposta dai tempi della
Rivoluzione khomeinista.
Wednesday, February 15, 2012
Mashaei, chi è costui? Lo scontro per il potere in Iran continua
(posted on http://www.come2discuss.net/, August 20th, 2011)
Probabilmente, per capire qualcosa del
perdurante scontro al vertice delle istituzioni in Iran occorre approfondire lo
sguardo su Esfandiar Rahim-Mashaei. Sullo sfondo del teatro politico si
stagliano le elezioni Presidenziali del 2013. Ahmadinejad sa di non poter
concorrervi in quanto la Costituzione Iraniana modificata nel 1989 pone il
limite massimo di due mandati consecutivi. Così, Mashaei potrebbe essere l’asso
nella manica che Ahmadinejad intende sfoderare per prolungare la sua presa sul
potere esecutivo. Per essere ammesso a concorrere dovrà superare il vaglio del
Consiglio dei Guardiani e vista la resistenza che l’attuale Presidente sta da
tempo opponendo alla Guida è probabile attendersi una sua bocciatura. Lo
scontro continua…
Nato nel
1960, Mashaei è, oltre che il consuocero di Ahmadinejad (sua figlia ha sposato
il figlio di questi), anche suo amico e collaboratore. Nel luglio 2009, in
seguito alle elezioni Presidenziali, Ahmadinejad lo ha nominato Primo
vice-presidente, ma è stato immediatamente costretto a rinunciare alla carica
poiché non gradito a Khamenei. Secondo la Costituzione, infatti, la nomina dei
Ministri spetta al Presidente (art. 133), ma una consuetudine non scritta
attribuisce alla Guida il potere di sindacare questa scelta[1].
Ciononostante, Ahmadinejad ha provveduto senza esitazioni a promuoverlo al
vertice del suo staff.
Scontro al vertice del potere in Iran
(posted on http://www.come2discuss.net/, July 30th, 2011)
La Guida della Rivoluzione Islamica ha decretato l’istituzione del Consiglio per la risoluzione delle dispute fra Governo, Parlamento e potere giudiziario. Il nuovo organo, composto da cinque membri, sarà presieduto dall’Ayatollah Seyyed Mahmoud Hashemi Shahroudi (già a capo del potere giudiziario fra il 1999 ed il 2009) e si aggiungerà alla già folta pletora di organi che compongono l’intricata architettura costituzionale del sistema politico iraniano.
La decisione di Khamenei può essere interpretata come una mossa tattica sia per emarginare l’ex Presidente Rafsanjiani che per contrastare il potere in ascesa dell’attuale presidente Ahmadinejad. Inoltre, stando alla lettura fornita da alcune fonti, Shahroudi viene indicato come potenziale successore di Khamenei al vertice del potere quando questi uscirà di scena. La mossa di Khamenei arriva in un momento in cui è cruciale riacquistare il peso progressivamente perduto a causa della prepotente ascesa dell’ala militare dei neoconservatori. La partita fra le due principali fazioni attualmente al potere è solo all’inizio.
Il declino dell'America
Se c’è un dato delle vicende internazionali che
deve allarmarci è l’inesorabile declino dell’America. Sono ormai anni, se non
decenni, che i politologi si sbizzarriscono a formulare scenari che vedono il
progressivo indebolimento dell’America, la cui perdita di potere relativo
consente l’inevitabile ascesa di altri Stati nella scena internazionale.
Le modalità che hanno condotto all’intervento
occidentale in Libia testimoniano ineluttabilmente questa tendenza, anzi per
certi versi l’accelerano. Sia chiaro, l’America è ancora la più grande potenza
al mondo almeno in termini economici e militari. Ma il ruolo giocato dagli
Stati Uniti in queste settimane è a dir poco imbarazzante. Dal Segretario di
Stato della più grande potenza al mondo non ti aspetti che giustifichi la
scelta di non intervenire, accontentandosi della proclamazione di una no fly
zone, adducendo il peso negativo dell’eredità acquisita in seguito alle
campagne (piuttosto disastrose) di Iraq e Afghanistan. In realtà, dalla più
grande potenza mondiale non ti aspetti proprio che si defili.
Gli Stati Uniti, dopo un decennio di politica
estera dissennata sotto la guida dell’improvvido George W. Bush, sembrano aver
invertito la rotta commettendo l’errore opposto, cioè peccando di inazione.
L’Amministrazione Obama ha dato prova finora di non essere totalmente
all’altezza delle sfide che provengono dal sistema internazionale. In realtà
l’indecisione mostrata da Obama è un puro atto di volontà politica, indice di
una strategia di disimpegno dalle vicende internazionali. La scelta di non annullare le visite in Brasile, Cile ed El Salvador, teatri assolutamente remoti rispetto a quello caldo
mediterraneo, spiega tutto.
Il protagonista assoluto della vicenda in
questione è il Presidente francese Sarkozy, in cerca di un consenso interno che
è riuscito peraltro ad ottenere. Ma gli è stato volutamente lasciato un enorme
margine di manovra. Gli è stata concessa su un piatto d’argento la possibilità
di colmare l’inspiegabile vuoto politico lasciato dall’America. Non bisogna
affatto cadere nella trappola di confondere la prudenza (principio guida
del realismo politico) con un vero e proprio atto di abbandono (il principio
guida della politica estera USA fino alla Seconda Guerra Mondiale:
l’isolazionismo di jeffersoniana memoria). Non sto dicendo che l’America
avrebbe dovuto impegnarsi in una nuova guerra. Sto semplicemente affermando che
avrebbe dovuto recitare un ruolo politico all’altezza della sua potenza. Anche
impedendo a Sarkozy una così avventata iniziativa.
La scelta del disimpegno non può che favorire
Paesi come la Russia o la Cina che hanno una proiezione globale degli interessi
e sono intenzionati a delegittimare il ruolo politico dell’America. La Russia
ha visto addirittura uno scontro interno al Cremlino fra il PresidenteMedvedev e il Premier Putin con quest’ultimo che non ha perso
tempo per condannare il carattere medievale della Risoluzione 1973.
E noi europei? L’intervento in Libia mostra la
netta spaccatura fra i Paesi del vecchio Continente e celebra il funerale di un
progetto politico che in realtà non è mai nato. Al declino americano non fa da
contraltare un’unione politica europea, tutt’altro: quell’asse franco-tedesco –
lo storico motore dell’unità europea – la cui solidità aveva retto persino sul
tema della guerra in Iraq, si è clamorosamente spezzato oggi su tale vicenda.
Paradossalmente, il sistema internazionale degli
Stati era più sicuro durante lo scorso decennio. Politicamente, il mondo
attuale è ormai multipolare. E, di conseguenza, assai più pericoloso.
Humanity or realpolitik?
(posted on http://www.dotduepuntozero.org/ and on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, February 26th, 2011)
It is hard to have ignored the great deal of
comparisons made between last weeks’ Arab turmoil and the 1989 events
following the fall of the Berlin wall. Such attempts hold a hidden hope, which
I would describe as human. It is the hope that, as were the citizens of the
post-communist nations, those of the Muslim nations will also be able to share
forms of democratic political participation. Furthermore, it is the hope that
the riots in question will trigger an economic development, which may lead to an
increase in wealth. In fact, such events generally end up in a price
increase for the most common goods, such as bread.
E’ difficile non aver notato il profluvio di
paragoni fra le rivolte arabe di queste settimane e gli eventi che sono seguiti
al crollo del Muro di Berlino nel 1989. Il tentativo nasconde una grossa
speranza che è prima di tutto umana: la speranza che, come allora i cittadini
dei Paesi post-comunisti, anche oggi quelli dei Paesi arabo-musulmani possano
conoscere forme di partecipazione politica assimilabili a forme democratiche,
unite ad uno sviluppo economico che porti una maggiore ricchezza in termini di
risorse per tutti. Non dimentichiamo infatti che queste rivolte seguono ad
un’impennata dei prezzi dei beni di consumo più comuni, come ad esempio il
pane.
Tuttavia, secondo me occorre maggiore prudenza
nell’attività di comparazione. Sono più numerose le differenze fra il caso
rappresentato dai Paesi arabi oggi e il caso dei Paesi post-comunisti nel 1989.
In primo luogo, come ha notato Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa del 18 febbraio, all’epoca il
mondo occidentale era interessato ad inglobare le realtà del blocco sovietico;
ed in effetti, come dimostrano gli allargamenti di Nato e UE, quegli interessi
hanno avuto seguito. Non si nota il medesimo interesse nei confronti dei Paesi
arabi oggi.
In secondo luogo, bisogna considerare il tessuto
sociale ed istituzionale dei Paesi arabi. Mentre nei Paesi post-comunisti si
poteva trovare un minimo di società civile (caso da manuale la Polonia, col suo
sindacato Solidarnosc e l’autonomia della Chiesa cattolica polacca – si veda l’ottima opera di Juan Linz e Alfred Stepan),
riflesso di un qualche embrione di cultura liberale coltivato nel passato, nei
Paesi arabi quello che manca è proprio questo ingrediente. E credo sia
nettamente discriminante. In Libia, addirittura, prevalgono quei legami clanici
e tribali che hanno spinto Khaled Fouad Allam ad ipotizzare il rischio di un
“Afghanistan nel Mediterraneo” (il Sole 24 Ore, 23 febbraio) a causa della
eccessiva frammentazione e mancanza di coesione nazionale. Sarebbe ingenuo e
pericoloso pensare di poter esportare la democrazia (anche pacificamente)
laddove una cultura democratica e liberale non esiste. L’esempio fornito dalla
politica estera di Bush parla in maniera piuttosto eloquente.
In terzo luogo, c’è il rischio che il potere
finisca nelle mani dei militari o dei fondamentalisti. In Egitto, la prima
delle due ipotesi è già realtà: altro che transizione democratica, verrebbe da
dire! Dunque, paragoni un po’ troppo affrettati. E, in ogni caso, l’ombra dei
fondamentalisti rimane. Non mi riferisco tanto ad al-Qaeda o a quei gruppi che
usano la violenza (i radicali) ma a chi propugna la cosiddetta islamizzazione
dal basso. Il caso egiziano è emblematico. Lì i Fratelli Musulmani non hanno bisogno
di bombe. La democrazia potrebbe benissimo aiutarli a prendere il potere.
D’altra parte, dispongono di una rete di “welfare religioso” (scuole,
ospedali, mense, servizi sociali) che hanno costruito nei decenni e grazie a
cui hanno potuto avviare una lenta ma costante opera di proselitismo.
Onestamente, non saprei quale sia la migliore
soluzione. Non è nemmeno il mio mestiere. Sul piano umano, è naturale sperare
che le violenze cessino e che Gheddafi possa risponderne di fronte alla Corte
di giustizia internazionale. D’altra parte, siccome credo che realpolitik e
umanità stiano fra loro in un rapporto inversamente proporzionale, forse era
meglio, almeno per noi italiani, la situazione precedente. Grazie alla
personalità di Silvio Berlusconi, il nostro Paese ha tessuto legami con molti
leader mondiali improntando la politica estera italiana a solidi rapporti
bilaterali. Avevamo un ottimo rapporto sia con Mubarak che con Gheddafi. Anzi,
da questo pinto di vista io parlerei di una coerente espressione della linea di
politica estera italiana pur nell’avvicendamento di governi diversi. La Libia è
un Paese dal quale dipendiamo enormemente in fatto di petrolio e gas. La
realpolitik era una via obbligata. Certo, si può biasimare la firma del
trattato italo-libico per aver in sostanza taciuto la questione del rispetto
dei diritti umani e credo che l’Italia, avendo comunque un buon potere
negoziale (siamo o no nella UE? Siamo o no nella Nato? Siamo o no alleati degli
Stati Uniti?), avrebbe potuto pretendere qualcosa in più su quel versante da
Gheddafi.
Rischiamo di andare incontro ad una situazione
incontrollabile, sia per quanto riguarda il futuro politico ed istituzionale di
quei Paesi (da cui, ripeto, dipendiamo parecchio in termini economici: saranno
ancora nostri alleati?), sia per quello che riguarda i contraccolpi che possono
seguire agli eventuali flussi migratori. Anche qui: umanità o realpolitik?
Cioè, accoglienza totale o riaffermazione della sovranità statale (e quindi dei
“confini”, l’unico strumento col quale si può discriminare fra cittadini e
stranieri)? Si accolga chi si può accogliere. Ma non possiamo farci carico di
tutti – soprattutto nel caso in cui, come afferma il Governo, dovessero
arrivare fino a 200.000 persone e visto e considerato che la disoccupazione
giovanile in Italia è al 29%. Le risposte concrete, ovviamente, sarà la
politica a doverle dare.
Il peso del sistema internazionale sulla questione egiziana
(riflessione pubblicata su http://www.dotduepuntozero.org/ il giorno 3 febbraio 2011 - posted on http://www.dotduepuntozero.org/, February 3rd, 2011)
L’evento di maggiore rilevanza
internazionale degli ultimi giorni è la rivolta del popolo egiziano contro il
regime della trentennale gestione di Mubarak. Consultando la stampa ed
ascoltando i telegiornali ho potuto osservare una straordinaria regolarità
nelle analisi prodotte riguardo alla vicenda in questione: diversi osservatori
ed analisti hanno tentato di instaurare un paragone con la famosa Rivoluzione
iraniana del 1979.
L’idea di base su cui si fonda la
comparazione ruota attorno alla focalizzazione sulle dinamiche interne al Paese
nordafricano. Come in Iran, la rivolta proviene dal basso; come in Iran, essa è
tesa alla destituzione di un capo alla testa di un regime visto come oppressivo
ed autoritario; come in Iran, il soggetto che potrebbe trarre beneficio dalla
ribellione è il movimento islamista. Sebbene il quadro delineato dai media
occidentali appaia persuasivo, esso sembra rispondere alle comprensibili ansie
e timori degli stessi governi e delle stesse opinioni pubbliche occidentali. Ma
ci sono anche analisti che prendono le distanze da tale prospettiva.
L’autorevole islamologo Olivier Roy, ad esempio, ritiene la rivolta egiziana
più assimilabile alla «Tehran della rivoluzione verde di due anni fa» e
considera remota la possibilità di un colpo di Stato islamico.
In realtà, diversamente da come
la pensa Roy al riguardo, gruppi islamisti possono tentare con successo di
andare al potere anche senza necessariamente passare attraverso un colpo di
Stato, ma in seguito ad elezioni (come dimostrano i casi di Hamas, Hezbollah,
AKP turco, oltre che il caso della vittoria del FIS algerino nel 1991, poi
annullata). Non è così remota l’eventualità che i Fratelli Musulmani, considerando
la loro densa presenza nella società egiziana, prendano il potere.
Approfittando dell’attuale fase di confusione, potrebbero prima stringere
un’alleanza tattica con le altre forze ostili al regime per poi eliminarle una
ad una dalla gestione del potere, proprio come fece il clero islamista in Iran
trent’anni fa. Si tratta di una possibilità, ma i possibili scenari che sono
molteplici e la prudenza con cui vanno trattati è d’obbligo.
Ad ogni modo, nelle analisi
comparate fatte in questi giorni un aspetto, a parer mio essenziale, le
indebolisce enormemente: la mancata considerazione dell’influenza del sistema
internazionale sulle vicende interne. Il discorso impostato dai media tiene sì
conto di attori esterni come Stati Uniti, Unione Europea, Israele, ma esso è
eccessivamente sbilanciato sulle vicende interne e non c’è traccia di una
spiegazione sistemica. In sostanza, che il destino del popolo egiziano sia
finire o meno sotto un regime islamista a guida Fratelli Musulmani sembra
dipendere totalmente da ciò che accadrà all’interno del Paese, con scarsa
considerazione per lo sfondo sul quale operano gli attori esterni.
E’ vero, è complicato comparare
casi diversi inseriti in contesti storico-internazionali differenti: come si fa
a paragonare l’Iran del 1979 con l’Egitto del 2011? Capisco la difficoltà.
Tuttavia alcuni elementi vanno analizzati.
La vittoria degli islamisti
iraniani nel 1979 poté compiersi, aprendo in seguito le porte all’instaurazione
di un regime totalmente in mano al clero, anche come conseguenza del tipo di
sistema internazionale dell’epoca e degli interessi allora percepiti come
prioritari. Il riferimento è alla Guerra fredda, un’epoca caratterizzata dallo
scontro politico, ideologico, economico e militare (anche se solo per interposta
persona) fra due attori che occupavano interamente la scena. Gli Stati Uniti
erano concentrati sul loro acerrimo nemico, il comunismo sovietico.
Fallita la distensione, gli anni Ottanta rappresentarono un decennio di corsa al riarmo, di continue prove di forza,
di conflitti mediorientali. La Rivoluzione iraniana venne vista con sospetto e
timore negli ambienti americani, ma non destava preoccupazione pari a quella
della minaccia comunista, la cui espansione andava ancora contenuta. E’
addirittura singolare che nella guerra afghana fra le forze del comunismo
sovietico e quelle del fondamentalismo islamico, gli Stati Uniti appoggiarono
le seconde.
Inoltre, gli eventi degli anni Settanta – disfatta militare e psicologica del Vietnam e crisi energetica – avevano messo
pesantemente in crisi gli Stati Uniti. Non era certo il caso di impantanarsi in
ulteriori teatri da cui sarebbe stato difficile uscire. Meglio concentrare
l’attenzione sulla minaccia allora percepita come primaria, l’Unione Sovietica,
e per il resto contenere senza troppa energia la secondaria minaccia islamista.
L’intervento della CIA per liberare gli ostaggi dell’ambasciata americana a
Tehran e il sostegno ambiguo dato all’Iraq nel conflitto contro l’Iran furono,
per l’appunto, tentativi timidi, indiretti e per lo più inefficaci di scalzare
il fondamentalismo islamico dal potere in Iran.
Prima che il fondamentalismo
islamico diventi una minaccia rilevante per gli Stati Uniti, occorre attendere
almeno gli anni Novanta e, prima di assurgere a nemico assoluto (utilizzo
volutamente questo aggettivo, considerata la visione missionaria e moralista
tipica della politica internazionale degli Stati Uniti, ed in particolare il
manicheismo con cui la Prima Amministrazione Bush ha costruito identità,
alleanze e minacce per rispondere al manicheismo islamista), il giorno 11
settembre 2001. La cristallizzazione del potere degli Ayatollah in Iran fu sì
conseguenza delle relazioni fra le diverse anime della Rivoluzione, ma
quell’esito è stato enormemente facilitato dall’esistenza di un sistema
internazionale più impermeabile di quello attuale – così come di attori
rilevanti più indifferenti di quelli odierni – alle considerazioni
sull’evoluzione e sulla minaccia dell’islamismo.
E’ in gran parte per questo
stesso motivo (ed è stupefacente che quasi nessuno ne discuta in maniera
chiara) che, al contrario, oggi il futuro dell’Egitto, qualunque sia l’esito
delle vicende interne, dipenderà anche da come gli attori interessati a
mantenere il fondamentalismo islamico lontano dal potere – Israele e Stati
Uniti in particolare – tratteranno la questione. Sono ormai dieci anni che
l’islamismo viene percepito come minaccia principale dalla superpotenza
globale; Israele inoltre confina proprio con l’Egitto e il suo carattere
ebraico fa dell’islamismo stesso una minaccia.
E’ significativo constatare che,
come si apprende dalle fonti di informazione, questa volta gli islamisti non
stanno svolgendo un ruolo rilevante nella conduzione della protesta, mentre nel
caso iraniano rappresentavano una delle anime principali della Rivoluzione. Ma
è altrettanto verosimile l’ipotesi che in caso di elezioni l’eventuale vittoria
dei fondamentalisti – che certo non tarderanno a presentarsi – costringerà gli
Stati Uniti ad una negoziazione mettendo però in crisi il loro ruolo in tutta
la regione. L’ideologia anti-americana e anti-israeliana della Fratellanza
unita alla storica sindrome da accerchiamento di cui soffre Israele faranno il
resto. Mai come adesso fattori internazionali come geografia e minaccia si
uniscono in un mix a tal punto esplosivo.
Il pantano afghano
(riflessione pubblicata il giorno 30 settembre 2010 su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ - posted on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, September 30th, 2010)
A che punto è la guerra
in Afghanistan? Quali sono gli obiettivi attuali? E’ oggettivamente complicato
rispondere a questi interrogativi. Tuttavia, dal paese in cui fu lanciato
l’intervento armato dell’autunno 2001 provengono notizie che parlano di
trattative in corso fra l’Amministrazione Obama e niente meno che il Mullah
Omar. Gli americani sembrano aver abbracciato una linea di cauto realismo che
segna una rottura abbastanza netta con la precedente Amministrazione Bush. Il
livello dei costi di questa guerra rimane sempre altissimo; la prospettiva del
ritiro, il cui inizio è annunciato per il 2011 (ma che finirà non prima del
2014), non è affatto confortante; i risultati sul mero piano
strategico-militare sono, dopo nove anni, insoddisfacenti.
Effettivamente l’idea di
pompare denaro per aumentare la presenza militare ha finora tradito le attese:
come già accadde negli anni Ottanta, all’epoca della lunga guerra afghana fra le
forze del comunismo sovietico e quelle del fondamentalismo islamico,
l’incremento della potenza militare dell’occupante non ha fatto altro che
produrre una sempre maggiore coesione fra la popolazione autoctona, accrescendo
la determinazione dei guerriglieri a ricacciare il nemico all’esterno dei propri
confini. Come dimostravano già le campagne in Vietnam ed in Iraq, gli strateghi
americani sembrano non aver imparato alcunché dall’esperienza delle guerre
contro gli indiani dei secoli XVII e XVIII. Non hanno compreso la difficoltà
intrinseca della guerra asimmetrica, un tipo di conflitto irto di ostacoli
quali ad esempio la particolare e spesso ostile morfologia del territorio, le
avverse condizioni atmosferiche, il morale del popolo invaso.
Per questa ragione, la
nuova Amministrazione Obama ha adottato, da un po’ di tempo, una concezione
della politica che potremmo definire meno manichea. Ovvero, in primis,
intavolare una seria trattativa con quella parte dei talebani insediati nel sud
dell’Afghanistan, che sembrano avere tutta l’intenzione di venire a patti con
gli Stati Uniti e, in secundis, dichiarare la propria contrarietà
rispetto a qualsiasi trattativa con al-Qaeda. Inoltre, come suggerisce la
formula giornalisticamente di successo AfPak, la strategia di Obama mira a
concentrare l’attenzione anche sul Paese guidato dal Presidente Zardari. Non
fosse altro perché gli americani si sono finalmente resi conto dell’estrema
influenza a doppio filo che lega il regime pakistano ai gruppi legati proprio
ad al-Qaeda. Le ragioni di questa relazione sono prettamente geopolitiche: il
Pakistan è notoriamente dotato dell’arma nucleare e ha tutto l’interesse per
ammansire e “tenersi buoni” i gruppi terroristi onde evitare ribaltamenti
interni.
Tuttavia, appare
problematico quello che risulta essere un vero e proprio sostegno del regime
pakistano al terrorismo jihadista; la qual cosa rischia di costituire il
bastone fra le ruote che la coalizione occidentale certamente non si aspetta.
Inoltre, l’intensificazione dei bombardamenti nelle zone pachistane del
Waziristan in cui sono concentrate fazioni jihadiste contrarie ad ogni
ipotesi di pacificazione, ha indispettito non poco Islamabad. E’ così che,
trattando con una fazione molto influente nella regione di Kandahar – quella
che fa capo, appunto, al Mullah Omar – gli Stati Uniti si barcamenano, per quel
che possono , dialogando con un gruppo ma continuando a bombardare in maniera
mirata gli altri. In questa situazione, inoltre, si inserisce l’operazione
attuata dalla Cia che, prevedendo l’utilizzo di droni, velivoli pilotati
dall’esterno, ha consentito qualche giorno fa di sventare gli attacchi jihadisti
preparati in territorio pakistano e diretti contro Paesi europei.
E’ all’incrocio tra
queste fitte trame e questi delicatissimi equilibri che si inserisce la
strategia di Obama. Il Presidente americano sa che le trattative condotte
unicamente con una fazione difficilmente condurranno ad una normalizzazione
totale dei rapporti all’interno della regione AfPak. Ma, accanto
all’addestramento militare a cui è sottoposto il personale locale, questa
soluzione pare essere, al momento, l’unica idonea all’obiettivo di una ritirata
strategica, la cui attuazione conoscerà ragionevolmente tempi non brevi e che
non deve passare pubblicamente per sconfitta ma per “afghanizzazione” del contesto.
Sopravvivenza, bene supremo
(riflessione pubblicata su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ il giorno 2 giugno 2010 - posted on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, June 2nd, 2010)
In politica internazionale la sopravvivenza è di gran lunga il bene
supremo. Gli Stati sovrani lo sanno molto bene ed è fisiologico che facciano di
tutto per difenderlo; soprattutto perché un Governo ha precise responsabilità
politiche nei confronti degli elettori e dei cittadini tutti. Finora, qualsiasi
progetto idealista-cosmopolitico (Danilo Zolo direbbe “globalista”) di governo
mondiale, sulla scorta della tradizione di pensiero kantiano-kelseniana, è fallito
miseramente. La politica internazionale è ancora, piaccia o no, quel locus
selvaggio in cui si combatte l’hobbesiana “guerra di tutti contro tutti”.
Fin da quando ha proclamato la propria indipendenza, lo Stato di Israele
ha vissuto stretto nella morsa di una guerra permanente, non sempre
effettivamente combattuta, ma sempre pronta ad essere scatenata. Israele vive
un dilemma della sicurezza perpetuo, non potendo mai dormire sonni tranquilli.
Sovente, però, è accaduto che nelle circostanze in cui si è trovato ad essere
maggiormente minacciato o addirittura attaccato, abbia reagito in maniera
sproporzionata rispetto all’offesa subita. Finendo, conseguentemente, per
“passare dalla parte del torto”, uscendone politicamente indebolito e
rafforzando politicamente e psicologicamente l’avversario. E’ per questa
ragione, ad esempio, che è stato Hezbollah il vero vincitore della guerra dell’estate
2006.
Gli avvenimenti che due giorni fa hanno visto coinvolte le forze armate
israeliane sono il chiaro esempio della ricerca della sopravvivenza da parte di
uno Stato sovrano. La maggior parte dei commenti finora prodotti sui quotidiani
e dai politici focalizza l’attenzione soprattutto su due particolari: lo
svolgimento dell’azione avvenuto in acque internazionali e l'uccisione di 9 "pacifisti" da parte di Israele. Pare abbastanza evidente come Gerusalemme, stando così
le cose, ne esca pesantemente indebolita, politicamente in grave difficoltà.
Tutti i principali Governi occidentali, compreso l’alleato americano, si sono
infatti smarcati da quest’iniziativa che si configura senz’appello alcuno
quale violazione del diritto internazionale.
E’ altrettanto curioso, tuttavia, notare come quasi nessuno fra gli
stessi discorsi finora prodotti abbia abbracciato una prospettiva più ampia di
quella strettamente giuridica per oggettivamente commentare e valutare la vicenda. Il
diritto internazionale è uno strumento enormemente monco che serve a regolare i
rapporti entro la comunità internazionale. Manca, infatti, un Leviatano (sempre
per citare Hobbes) in grado di far rispettare le norme sanzionando eventuali
comportamenti devianti. Le relazioni internazionali, anche qui piaccia o no, si
fondano nientemeno che sull’anarchia, cioè sull’assenza di enti gerarchicamente
superiori agli Stati, venendo a mancare, quindi, lo stesso meccanismo di
comando-controllo che, almeno in teoria, entro i confini dei regimi democratici produce una certa adesione della comunità al sistema di norme,
associando al loro carattere di “legalità” quello di “legittimità”.
Nel XVII secolo il filosofo liberale John Locke affermava che i trattati
internazionali vanno considerati come chiffons de papier. Il crudo
realismo di questa definizione spiega la naturale sfiducia che esiste nei rapporti fra entità
statuali. Dalla ricostruzione della vicenda risulta che lo Stato d’Israele avesse intimato più volte alle navi che si stavano
dirigendo verso la Striscia di Gaza di deviare la propria rotta verso il porto di
Ashdod per sottoporle ad un controllo. Cionondimeno, queste hanno continuato a proseguire
verso il loro obiettivo. La sfida lanciata dalle sei navi “pacifiste”
sponsorizzate da una Turchia in cerca di nuovi equilibri internazionali era
troppo rischiosa perché Israele potesse chiudere gli occhi – come invece la
comunità islamica mondiale e quella pacifista occidentale avrebbero auspicato.
Le ipotesi che la Turchia stessa entri nell’UE si stanno riducendo sempre
maggiormente e
l’accordo sull’uranio firmato con Brasile e Iran, acerrimo nemico di Israele,
verbalizza questa ricerca di nuove fonti di legittimazione. Paradossalmente, lo
Stato turco cerca di far passare l’azione di Israele come un atto di guerra ed
invoca il dispositivo di cui all’articolo 5 del Patto Nato per mettere lo Stato
ebraico in ulteriore difficoltà ed imbarazzo.
Le immagini trasmesse in tv e su internet mostrano come, sulla nave
Marmora, ai tanti pacifisti ingenui si mischiassero militanti filo-Hamas,
persone violente che trasportavano armi quali coltellacci e spranghe e chissà
cos’altro. Persone violente che evidentemente remano contro le ragioni della
pace e che hanno attaccato violentemente i soldati israeliani, i quali, viene
da presupporre, non avevano altra opzione praticabile che difendersi anche con
l’uso della forza, sproporzionata o meno che fosse. Non si capisce dove stia il pacifismo di chi, vedendo un soldato calarsi giù da una fune, lo attacca violentemente con delle spranghe formando un gruppo di cinque-sei persone contemporaneamente. L’intervento
israeliano, per quanto deprecabile sul piano umano, era volto alla tutela
dell’interesse nazionale, la sopravvivenza. L’eventuale inazione di fronte ad
un tale episodio, infatti, avrebbe creato un precedente e incoraggiato i nemici
di Israele ad emulare gli “eroi” delle “navi della pace”. Magari ricorrendo
alla scusa degli aiuti umanitari e del pacifismo per trasferire armi di
qualunque tipo nella Striscia di Gaza, foraggiando Hamas.
Ci troviamo di fronte ad una situazione in cui, ponendo il focus della
discussione sulla morte dei 9 civili (ma civili fino a che punto?), si
preferisce guardare il dito anziché la luna, finendo per dare ragione a chi
rincorre lo scopo della distruzione dello Stato d’Israele.
Il diritto dell'Iran al nucleare
(riflessione pubblicata il giorno 9 ottobre 2009 su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ - posted on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, October 9th, 2009)
Chi ha stabilito che l’Iran non possiede il “diritto al nucleare”? Il problema è assai complicato dalla natura dei rapporti internazionali con quel Paese seguiti alla Rivoluzione del 1979. Tale questione va affrontata esaminando due aspetti: quello della necessità di produrre energia a fini civili e quello della pretesa a produrre uranio arricchito. Al problema si accompagna la retorica, spesso abusata dai vertici politici del regime, che fa presupporre scenari internazionali inquietanti.
Innanzitutto, è necessaria una premessa di ordine storico e sistemico. La politica internazionale si basa da almeno quattro secoli (le Paci di Westfalia del 1648 sono l’evento convenzionale) sostanzialmente su due principi: la formale eguaglianza degli Stati e l’affidamento delle decisioni ultime alla politica di potenza. Entrambi sono il riflesso della mancanza di un ente riconosciuto come superiore, il cosiddetto carattere anarchico del sistema. Anche il moderno diritto internazionale ha assimilato i due criteri nel sistema delle Nazioni Unite. Con la differenza che mentre il primo - fondandosi sul meccanismo per il quale ad ogni Stato corrisponde un voto all’interno dell’Assemblea Generale - è posto a tutela degli Paesi più insignificanti, il secondo - trovando riflesso speculare nella composizione e nel funzionamento del Consiglio di Sicurezza - consegna la potestà sulle decisioni più importanti alle grandi potenze. Per l’idea dell’eguale sovranità, non rilevano la dimensione geografica, l’entità demografica, la potenza politica, economica, militare del Paese. Per la politica di potenza invece sì.
Ora, come dicevo all’inizio, la strada dell’Iran verso l’energia nucleare va analizzata sotto un duplice profilo. L’Iran è un Paese che registra fortissimi tassi di crescita demografica (in trent’anni la popolazione è raddoppiata) ed è un Paese “giovane”: metà della popolazione (circa 70 milioni di persone) è sotto i 25 anni. Tuttavia, l’economia fatica ad assorbire del tutto la forte domanda di lavoro (disoccupazione al 14%) e la stessa economia presenta gravi deficienze collegate alla sua natura di rentier State, cioè di Stato che vive di una rendita che gli deriva dall’ingente possesso di risorse naturali (è il secondo produttore Opec di petrolio e il secondo possessore di gas naturale al mondo).
Il punto centrale del problema è che le riserve naturali sono esauribili. Prima o poi esse finiranno e si porrà il problema di trovare fonti di energia alternative. A ciò si aggiunge il fatto che l’Iran non possiede la tecnologia adeguata per trasformare il petrolio grezzo in prodotto finito. Vi riesce solo in parte ed è costretta ad esportarlo all’estero per farlo raffinare, per poi farlo rientrare e reimmetterlo nel mercato interno. Questa operazione provoca un’emorragia di denaro pubblico che presuppone alti costi del prodotto finito. Tuttavia, il costo di un prodotto come la benzina è pari a circa 9-11 centesimi di dollaro per litro. E’ l’imposizione di un “prezzo politico” che serve al mantenimento della legittimazione del regime. Si calcola, però, che nel breve volgere di pochi anni il Paese non sarà più in grado di esportare una sola goccia di petrolio. Da qui l’enfasi sulla necessità di ricorrere all’energia nucleare.
L’ambiguità che ruota attorno alla questione sta nei rapporti che il regime intrattiene con la comunità internazionale. L’esistenza di un programma nucleare destinato a scopi militari è databile agli Anni 50, cioè all’inizio della Guerra Fredda, ai tempi dello Shah Reza Pahlavi. All’epoca, e fino alla Rivoluzione del 1979, l’Iran rappresentava il principale alleato militare degli Usa in Medio Oriente fra i Paesi musulmani. Ma, da quando il regime degli ayatollah si è insediato a Teheran sotto lo slogan “Né Ovest, né Est, solo Islam” lo scenario è cambiato. Il Paese è uscito martoriato dalla guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini ha posto il problema della sopravvivenza di un regime fino ad allora fondato sulla riunione in una sola figura dell’autorità politica e religiosa. Negli anni successivi la politica estera del Paese è stata improntata ad un ragionevole pragmatismo e la fase di ideologizzazione seguita alla Rivoluzione è in parte scemata. Era evidente la necessità di instaurare legami di cooperazione economica con i Paesi europei che, come il nostro, avevano e hanno bisogno del petrolio.
L’ascesa al potere di Ahmadinejad (che in realtà, vista la configurazione istituzionale interna al regime, sembra più essere solo una pedina nelle mani di Khamenei) ha spinto verso una nuova fase di ideologizzazione. La retorica utilizzata dal Presidente ex-Pasdaran sulla distruzione dello Stato di Israele, il sostegno ai movimenti sciiti nella regione fra cui Hezbollah in Libano, lo spalleggiamento di Hamas: sono tutti fattori che provocano i timori dei Paesi occidentali. Inoltre, Ahmadinejad invoca spesso il ricordo del lasciapassare concesso dagli Usa negli Anni 50.
Si può comprendere, quindi, come la questione dell’energia nucleare sia fortemente invisa all’Occidente e si possono ragionevolmente capire le motivazioni che stanno dietro ai tentativi di bloccare il programma. Ma se da un lato l’Iran ha oggettivamente la necessità economica di accedevi a fini civili, dall’altro è la natura dell’ordine internazionale a conferire all’Iran il diritto di dotarsi di un programma per fini militari. Lo dice la politica di potenza, lo afferma l’assenza di un governo mondiale, lo conferma il possesso della bomba atomica da parte sia di altri Paesi extra-regionali (Stati Uniti in testa), sia regionali (Israele e Pakistan). Il punto di vista iraniano è ovvio: la comunità internazionale deve accettare la rivendicazione di un “diritto al nucleare”. D'altra parte è palese la sfida cui si trova davanti l’Occidente stesso: fermare le ambizioni di un Paese che mira da anni all’egemonia regionale in Medio Oriente. Dalla soluzione di questo dilemma dipenderanno non solo le relazioni fra l'Iran e l'Occidente ma la stabilità dell'intera regione mediorientale negli anni a venire.
Iran, un dialogo difficilmente praticabile
(riflessione pubblicata su http://www.come2discuss.net/ il 20 marzo 2009 - posted on March 20th, 2009 http://www.come2discuss.net/)
Vi sono almeno tre elementi che è
bene prendere in considerazione a proposito dell’idea patrocinata dalla nuova
Amministrazione statunitense e sostenuta dall’Europa di promuovere l’Iran quale
inedito partner cui allargare il dialogo previsto per tentare di risolvere le
sempre più intricate questioni che riguardano il Medio Oriente ed il mondo
islamico.
In primo luogo è arrivata la
smentita del viaggio del Ministro degli Esteri Frattini previsto entro la fine
di marzo a Tehran, avente il fine di convocare il governo iraniano alla
conferenza del G8 di giugno sulle questioni Afghanistan-Pakistan: la visita è
stata rinviata. In seconda istanza, nei giorni scorsi
è giunto anche l’invito all’Iran da parte del Segretario di Stato Usa Clinton a
prender parte alla conferenza internazionale ad alto livello sotto l’egida
delle Nazioni Unite prevista per il 31 marzo all’Aja. Esso si somma al processo
di normalizzazione dei rapporti avviato dalla Nato con la Russia, dopo sette
mesi di stallo seguiti al conflitto caucasico. Da ultimo, bisogna comunque
tener conto di come la posizione dell’Iran faccia a pugni, su molte,
troppe questioni ed ormai da diverso tempo, con l’idea di un negoziato aperto
anche allo Stato persiano. E’ dall’analisi di questa
situazione che bisogna tentare di comprendere quale ruolo l’Iran possa giocare
nella soluzione del problema del terrorismo e della stabilizzazione in
Afghanistan.
La nuova linea di politica estera
inaugurata dalla Presidenza Obama lascia intravedere l’incedere di un cauto
realismo al posto del fin troppo esasperato idealismo
che aveva caratterizzato i due mandati di Bush jr. E’ vero, essa ha quale asse
portante l’idea di evacuare l’Iraq per lasciarlo finalmente al suo popolo, per
concentrare gli sforzi sul teatro afghano. Ma è altrettanto vero che
l’obiettivo della guerra al terrorismo rimane prioritario nell’agenda politica
Usa. La parola d’ordine è la medesima. Era stato lo stesso Obama a dichiarare
nel discorso inaugurale: “a coloro che cercano di raggiungere i propri
obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che
il nostro spirito è più forte e non può essere infranto”. Chi era, infatti, così
ingenuo da immaginare che un cambio di colore alla Casa Bianca potesse portare
la superpotenza ad usare solo la carota e non più (anche) il bastone?
Considerazione avvalorata, peraltro, dalla tendenza sempre più marcata – anche
per via della crisi economica – del sistema internazionale a transitare verso
una configurazione multipolare quanto alla distribuzione di potenza.
La
questione principale consiste nel considerare costi e benefici, nell’analizzare
vantaggi e svantaggi che deriverebbero dall’accreditare l’Iran quale nuova
potenza con cui avviare una qualche forma di dialogo. L’Iran è già a tutti gli
effetti una potenza regionale sotto molteplici profili: quello economico,
facendo dipendere dalla ricchezza del suo sottosuolo l’approvvigionamento di
molti Paesi europei, incluso il nostro; quello politico, dal momento che le
guerre in Afghanistan e in Iraq avviate sotto l’Amministrazione Bush, hanno
eliminato due attori che ne minacciavano l’autorità, sia per quello che
riguarda il discorso islamista (i Taliban) sia per quello che attiene al confronto
per il potere nella regione (Saddam). Non va dimenticato che l’Iran è il
principale finanziatore e sostenitore ideologico di organizzazioni assai
radicate nel proprio territorio che praticano da anni forme più o meno
riconosciute di terrorismo nella regione (Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah),
per quanto vada comunque precisato che si tratta di un terrorismo di matrice
localistica e non abbia la portata globale di quello qaedista. Non va, inoltre,
trascurato come l’Iran si stia muovendo da diversi anni per sviluppare capacità
nucleari. Gli esperti calcolano che nel breve volgere di pochi anni, la
produzione di petrolio sarà appena sufficiente per assorbire la domanda interna
e l’Iran non riuscirà più ad esportare una sola goccia di petrolio. (poiché
manca il know-how necessario a
trasformare il greggio in prodotti di uso comune come la benzina). Tale
prospettiva dà linfa ai sostenitori del programma di arricchimento dell’uranio
avviato dal Paese e su cui insiste pesantemente Ahmadinejad. Il problema esiste,
è reale e la soluzione nucleare pare la scelta politica più idonea per
risolvere le piaghe di un’economia in ginocchio. Tuttavia, bisogna considerare
come il binomio costituito dall’ipotesi (ormai quasi una certezza, secondo
molte fonti) di sviluppare tecnologia dual
use, associata alle sortite dell’ex sindaco di Teheran circa il destino
dello Stato di Israele, non faccia dormire sonni tranquilli a diversi Stati
occidentali, per quanto tali sortite vadano cautamente inserite all’interno di
un contesto fortemente propagandistico.
Considerati
questi fattori, quanto conviene all’Occidente e all’America accreditare l’Iran
quale partner per risolvere le questioni legate al proliferare del terrorismo?
Essendo già l’Iran una potenza regionale di fatto, le manca solo la
legittimazione internazionale per agire come un cane sciolto ovunque abbia
interessi di egemonia o di potenza, convinta di potersi muovere molto più
liberamente di quanto faccia già ora. Quanto può pesare l’apertura all’Iran sul
piano dei rapporti degli Stati Uniti con Paesi arabi quali l’Arabia Saudita, la
Giordania, l’Egitto e il Marocco (quest’ultimo tra l’altro ha interrotto pochi
giorni fa le relazioni diplomatiche proprio con l’Iran)? Sono questi gli
interrogativi che più di tutti necessitano di una risposta. Si spera che
l’Occidente, a differenza del recente passato – il riferimento è in merito
all’intervento in Iraq – si trovi non solo ad adottare una linea politica più
realista e, quindi, lungimirante, ma agisca di concerto facendo emergere quella
coesione senza la quale i problemi globali difficilmente potranno essere
affrontati.
Iran, nucleare: siamo sull'orlo del precipizio
(riflessione pubblicata su http://www.come2discuss.net/ il 30 aprile 2006 - posted on April 30th, 2006, http://www.come2discuss.net/)
Sembra davvero uno scenario già visto quello che ormai da diversi mesi
si impone al centro delle notizie che contano nelle relazioni internazionali:
un paese nemico della democrazia che, con ambizioni di egemonia mondiale, sfida
l’intera comunità internazionale degli Stati. Simili agli atteggiamenti con cui
si poneva la Germania nazista di Hitler, simili alle beffe che Saddam Hussein
si è fatto per anni delle Nazioni Unite, le mosse dell’Iran di Ahmadinejad sono
all’origine dell’ennesima tegola che si sta abbattendo sull’area mediorientale,
come se in quelle zone di problemi non ce ne fossero già abbastanza. Quello che
fa paura è che, come i “predecessori” di Ahmadinejad sono riusciti, almeno in
parte, a perseguire senza ostacoli i loro rispettivi progetti
politico-egemonici, lo stesso Presidente dell'Iran sembra essere sulla buona strada per
riuscire nel suo; un'aspirazione che si manifesta
per la sua natura panislamista. Hitler, senza che alcuno muovesse un dito, ha
allargato progressivamente i confini del suo impero, inglobando popoli e
sterminando razze ed etnie. La politica dell’appeasement di Chamberlain e di
chi, come lui, sosteneva la necessità del dialogo con un pazzo, è stata una
delle concause che hanno originato la seconda guerra mondiale.
Saddham Hussein, dal canto suo, non fu da meno: l’aiuto economico delle petromonarchie arabe e degli Stati Uniti gli hanno conferito i mezzi necessari per portare a termine vittoriosamente la prima guerra del Golfo, (che vedeva contrapposto il “suo” Iraq all’Iran teocratico di Khomeini) per poi, seguendo la china scivolosa di chi quando vince per la prima volta al casinò non si accontenta più, invadere il Kuwait nel 1990, cadendo però miseramente grazie all’intervento di una coalizione capeggiata dagli stessi U.S.A.. Il problema poi è che nessuno ha rimosso Saddam (evidentemente agli Stati Uniti andava bene così) e questi ha potuto continuare indisturbato nella sua politica di eccidio, sterminando durante la sua lunga dittatura 2 milioni di persone tra cui minoranze curde e sciite. Per scalzarlo si è dovuti ricorrere, solo nel 2003, alla scusa delle armi di distruzione di massa che non sono state trovate. Lui, Saddham Hussein, è stato alla fine individuato ed arrestato ma la situazione attuale in Iraq può dirsi tutt’altro che pacificata.
Il pericolo costituito dall’Iran è rafforzato da un programma che prevede l’arricchimento dell’uranio e l’attivazione del ciclo nucleare “a scopi civili”, secondo quanto afferma da mesi il Presidente Ahmadinejad. Pregiudizievole ma, a detta di tutti gli esperti di geopolitica, fondato è il timore che Ahmadinejad voglia installare sul territorio iraniano centrali nucleari a scopo militare, non fosse altro perché tale possibilità conforterebbe molto l’opportunità di realizzare l’elemento precipuo della sua agenda: l’eliminazione fisica, la cancellazione dalla cartina geografica dello Stato di Israele.
Se a tutto ciò si aggiunge il programma già avviato che mira a preparare migliaia di kamikaze pronti a farsi saltare in aria in missioni suicide, le carte di Ahmadinejad sono scoperte. Le sue brame reali sono sotto gli occhi di tutti. Proprio ieri il rapporto stilato dal direttore generale dell’AIEA, El Baradei, fa registrare il risultato negativo delle pressioni che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha esercitato sull’Iran per convincere il suo Presidente ad abbandonare i suoi piani. La situazione, insomma, si sta ripetendo: Ahmadinejad, come Saddam, si fa beffe dell’ONU; Ahmadinejad, come Hitler all’epoca, si burla della comunità internazionale degli Stati, i quali auspicano una soluzione distensiva e pacifica degli eventi.
Notizia dell’ultim’ora è la rivelazione portata alla luce da un satellite israeliano lanciato dalla Russia che fotograferebbe la presenza di centrali nucleari sul territorio iraniano.
L’ONU sembra andare a sbattere per l’ennesima volta contro il muro poiché all’interno del Consiglio di Sicurezza ci sarebbe, sulla questione, una contrapposizione fra chi auspica una risoluzione (Russia e Stati Uniti in particolare) che congeli il progetto iraniano e chi ha già annunciato di porre il veto (Cina) sostenendo la necessità di proseguire con l’attività diplomatica. Se emergesse una tale realtà proprio in questa sede, il CdS cadrebbe vittima del sistema che da sempre imbriglia la sua attività (ragion per cui spesso ha incontrato difficoltà per muovere anche un solo dito). Se le cose dovessero prendere questa piega, ho paura che si andrà incontro all’ennesima catastrofe, con gli Stati Uniti decisi ad impedire ad ogni costo che l’Iran persegua il suo progetto e con l’Iran che per il momento agisce solo con i paraocchi. La guerra è sempre l’extrema ratio, ma ad ogni modo la possibilità di ricorrervi va tenuta lontana finché è possibile. La situazione è quanto mai realmente appesa ad un filo.
Saddham Hussein, dal canto suo, non fu da meno: l’aiuto economico delle petromonarchie arabe e degli Stati Uniti gli hanno conferito i mezzi necessari per portare a termine vittoriosamente la prima guerra del Golfo, (che vedeva contrapposto il “suo” Iraq all’Iran teocratico di Khomeini) per poi, seguendo la china scivolosa di chi quando vince per la prima volta al casinò non si accontenta più, invadere il Kuwait nel 1990, cadendo però miseramente grazie all’intervento di una coalizione capeggiata dagli stessi U.S.A.. Il problema poi è che nessuno ha rimosso Saddam (evidentemente agli Stati Uniti andava bene così) e questi ha potuto continuare indisturbato nella sua politica di eccidio, sterminando durante la sua lunga dittatura 2 milioni di persone tra cui minoranze curde e sciite. Per scalzarlo si è dovuti ricorrere, solo nel 2003, alla scusa delle armi di distruzione di massa che non sono state trovate. Lui, Saddham Hussein, è stato alla fine individuato ed arrestato ma la situazione attuale in Iraq può dirsi tutt’altro che pacificata.
Il pericolo costituito dall’Iran è rafforzato da un programma che prevede l’arricchimento dell’uranio e l’attivazione del ciclo nucleare “a scopi civili”, secondo quanto afferma da mesi il Presidente Ahmadinejad. Pregiudizievole ma, a detta di tutti gli esperti di geopolitica, fondato è il timore che Ahmadinejad voglia installare sul territorio iraniano centrali nucleari a scopo militare, non fosse altro perché tale possibilità conforterebbe molto l’opportunità di realizzare l’elemento precipuo della sua agenda: l’eliminazione fisica, la cancellazione dalla cartina geografica dello Stato di Israele.
Se a tutto ciò si aggiunge il programma già avviato che mira a preparare migliaia di kamikaze pronti a farsi saltare in aria in missioni suicide, le carte di Ahmadinejad sono scoperte. Le sue brame reali sono sotto gli occhi di tutti. Proprio ieri il rapporto stilato dal direttore generale dell’AIEA, El Baradei, fa registrare il risultato negativo delle pressioni che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha esercitato sull’Iran per convincere il suo Presidente ad abbandonare i suoi piani. La situazione, insomma, si sta ripetendo: Ahmadinejad, come Saddam, si fa beffe dell’ONU; Ahmadinejad, come Hitler all’epoca, si burla della comunità internazionale degli Stati, i quali auspicano una soluzione distensiva e pacifica degli eventi.
Notizia dell’ultim’ora è la rivelazione portata alla luce da un satellite israeliano lanciato dalla Russia che fotograferebbe la presenza di centrali nucleari sul territorio iraniano.
L’ONU sembra andare a sbattere per l’ennesima volta contro il muro poiché all’interno del Consiglio di Sicurezza ci sarebbe, sulla questione, una contrapposizione fra chi auspica una risoluzione (Russia e Stati Uniti in particolare) che congeli il progetto iraniano e chi ha già annunciato di porre il veto (Cina) sostenendo la necessità di proseguire con l’attività diplomatica. Se emergesse una tale realtà proprio in questa sede, il CdS cadrebbe vittima del sistema che da sempre imbriglia la sua attività (ragion per cui spesso ha incontrato difficoltà per muovere anche un solo dito). Se le cose dovessero prendere questa piega, ho paura che si andrà incontro all’ennesima catastrofe, con gli Stati Uniti decisi ad impedire ad ogni costo che l’Iran persegua il suo progetto e con l’Iran che per il momento agisce solo con i paraocchi. La guerra è sempre l’extrema ratio, ma ad ogni modo la possibilità di ricorrervi va tenuta lontana finché è possibile. La situazione è quanto mai realmente appesa ad un filo.
Tuesday, February 14, 2012
Presentazione - Introduction
Cari lettori,
mi chiamo Alberto Gasparetto e sono dottorando di ricerca in Scienza Politica e Relazioni Internazionali all'Università di Torino. Mi occupo prevalentemente dell'impatto della religione sulla politica estera iraniana e turca, ma la mia passione si estende a tutto quanto il Medio Oriente ed alle relazioni internazionali.
Con questo spazio web spero di contribuire alla diffusione delle conoscenze su questi argomenti, spesso trattati in modo assai superficiale sui media italiani.
Dear all,
my name is Alberto Gasparetto, Phd candidate in Political Science and International Relations at the University of Turin (Italy). I work on a research focusing on the role of religion in Iran and Turkey's foreign policies, but I am keen on the Middle East and the international politics as well.
With this web space I hope to give my contribution on those topics and to delve into the debate.
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My latest journal article "Domestic Factions and the External Environment in Iran's Foreign Policy" has been published in the ...
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La decisione di bombardare la Striscia di Gaza, presa a metà della scorsa settimana dal governo israeliano, non può essere letta s...
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Journal article: Domestic Factions and the External Environment in Iran's Foreign Policy
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