E’ nel bel mezzo dello scontro al
vertice per il potere in Iran che Mahmoud Ahmadinejad prende parte alla
spedizione iraniana per partecipare ai lavori della 66ma Assemblea Generale
delle Nazioni Unite. Il discorso pronunciato giovedì 22 settembre[1],
durato poco meno di mezz’ora, è stato condito dalla retorica che tipicamente
contraddistingue i discorsi del Presidente iraniano. Un insieme ben congegnato
di sentimento antiamericano e terzomondismo che ha portato molte delegazioni
occidentali a lasciare anzitempo l’aula; per giunta, com’era da attendersi,
Israele non ha nemmeno presenziato.
Ma, se ascoltato con pazienza e
fino alla fine, il discorso di Ahmadinejad non si configura esattamente come un
ideologico e scriteriato attacco all’America. Soprattutto, occorre tenere conto
non solo dell’attuale scontro al vertice interno all’Iran – da cui Ahmadinejad
tenta in tutti i modi di uscire vincitore, sfruttando anche i consessi
internazionali – ma della ormai più che trentennale vicenda politica della
Repubblica Islamica. Fin dal 1979, e soprattutto durante gli anni Ottanta, la
politica estera iraniana è stata contrassegnata da una buona dose di
panislamismo che, a fasi alterne, è stato affiancato da un necessario e corposo
ricorso al pragmatismo – in maniera più che evidente durante la Presidenza
Rafsanjani (1989-1997). L’uso politico della religione, ovvero il ricorso alla
ideologia islamista, è stata una risorsa usata sapientemente dall’élite al potere per fronteggiare il
grado di isolamento internazionale a cui è sottoposta dai tempi della
Rivoluzione khomeinista.
Il Paese rappresenta un unicum dal punto di vista etnico e
religioso in Medio Oriente: è etnicamente persiano in un ambiente a maggioranza
araba ed è religiosamente sciita, circondato da Paesi a maggioranza sunnita.
Questa situazione di vero e proprio eccezionalismo ha determinato nell’élite al potere l’affiorare di una
costante percezione di minaccia dall’esterno, sia che fosse sottoforma di
presenza militare ai confini sia, addirittura, attraverso tentativi di
installare attività commerciali straniere sul territorio. Diversamente da ciò
che il pensiero comune può indurre a ritenere[2],
le summenzionate differenze etniche e religiose rivestono una importanza
determinante nella definizione degli orientamenti di politica estera.
E’ vero che nel suo speech Ahmadinejad ha puntato il dito
contro l’America e l’Occidente, addebitando alla superpotenza la responsabilità
per la crisi economica mondiale e per il livello di povertà che affligge
«approssimativamente tre miliardi di persone che vivono con meno di 2,5 dollari
al giorno»; è vero che ha nuovamente proclamato l’illegittimità dello Stato di
Israele, affermando che «l’Europa da sessant’anni sta usando l’Olocausto come
pretesto per pagare un’ammenda o un riscatto ai Sionisti»; è vero che ha
sollevato dubbi sulla validità degli attentati del giorno 11 settembre,
sostenendo che anch’essi sono stati usati dall’America come scusa «per
attaccare l’Afghanistan e l’Iraq». Ma a queste parole, apparentemente cariche
di odio e di ideologia, si sono aggiunte le proposte di modifica dell’ordine
internazionale in senso cooperativo, affermando la necessità della lotta all’oppressione
e contro le ingiustizie: «libertà, giustizia, dignità, benessere e sicurezza
duratura sono diritti di tutte le nazioni». Parole di lode sono state spese a
favore dello stesso progetto di creazione delle Nazioni Unite, concepito per il
bene di tutta l’umanità; notevole enfasi, infine, è stata posta sulla necessità
di pervenire a soluzioni condivise e cooperative. Nella parte finale non sono
mancati i richiami al ritorno dell’Imam nascosto, una issue ricorrente nei suoi statement.
Il discorso di Ahmadinejad è,
quindi, uno straordinario capolavoro di retorica antioccidentale e
terzomondista. L’accento posto sulle sofferenze dei più deboli è, d’altra
parte, una costante presente anche nei discorsi di politica interna. La sua
stessa agenda politica è fortemente intrisa di formule come “lotta alla
corruzione”, di appelli al “riscatto dei poveri”, alla “giustizia sociale” ed
all’”eguaglianza”, in un mix di riferimenti alla prossimità della fine dell’era
dell’Occultazione e all’avvento dell’era della giustizia e della salvezza. Un
insieme di elementi che ricorda molto da vicino le categorie dell’”Islam rosso”[3]
di Ali Shariati che, parlando della coppia dicotomica “mostazafin-mostakhbarin” fondeva, adattandoli al nuovo contesto,
aspetti della filosofia marxista e islamici.
Ma, come detto, la retorica a cui
Ahmadinejad ci ha abituati andrebbe interpretata più come il riflesso
condizionato di un Paese che da più di trent’anni soffre le conseguenze
dell’isolamento internazionale. Se leggiamo le interviste che il Presidente
iraniano ha rilasciato sempre nei giorni scorsi a due quotidiani come Tehran Times[4]
e Washington Post[5]
ci rendiamo conto del pragmatismo di fondo con cui in realtà si muove
Ahmadinejad – pragmatismo che ogni leader politico, soprattutto di quel paese,
è obbligato ad adottare in politica estera.
Il nodo principale delle tensioni
nei rapporti fra Iran e Stati Uniti riguarda la questione nucleare ed è
strettamente legata alla situazione della sicurezza esterna del paese persiano.
Dopo l’11 settembre 2001 l’America si è scoperta vulnerabile ma l’Iran ha
lanciato continui segnali di distensione offrendo la propria disponibilità ad
aiutare gli Stati Uniti nello sforzo di ricostruzione dell’Afghanistan – come
conseguenza anche dell’atteggiamento di apertura verso l’Occidente inaugurato
dalla Presidenza Khatami. Tuttavia, i tentativi di engagement con l’Amministrazione Bush, sempre più influenzata dal
gruppo di neoconservatori, sono falliti. Scomparso il comunismo, la necessità
di identificare un nemico ha portato l’America ad far ricadere sotto il
medesimo ombrello tutta la variegata gamma di attori che pure si ispirano al
fondamentalismo islamico. Vale la pena di sottolineare che il mancato rapprochement sulla situazione afghana
ha rappresentato un precedente significativo che ha acuito ancor più lo
scetticismo verso l’America che pervade l’élite
al potere in Iran[6].
La chiusura dell’esperienza di
Khatami apriva le porte all’ascesa dei neoconservatori in Iran sotto la guida
di Ahmadinejad, che però, malgrado i proclami veementi contro “il Piccolo ed il
Grande Satana”, ha saputo muoversi con realismo, approfondendo sì i rapporti
con i movimenti islamisti, anche sunniti, della regione, ma prestando
attenzione ai rapporti economici, che pure contano, con chiunque fosse disposto
a trattare – Unione Europea, Turchia, Russia. Proprio con quest’ultima ci sono
i rapporti forse più solidi, saldati dalla recente e definitiva attivazione
dell’impianto nucleare di Bushehr[7],
verso cui già dagli Anni Novanta si sono concentrate l’attenzione ed il know-how offerti dai russi.
Per Ahmadinejad, quindi, non ci
sono problemi con gli Stati Uniti: «noi amiamo gli americani, noi amiamo tutte
le nazioni». Parole che certo cozzano con la retorica ufficiale di regime, ma
che trovano conferma nelle esternazioni del suo delfino Esfandiar Rahim Mashaei[8],
inviso ai conservatori religiosi e alla Guida stessa. Ahmadinejad dichiara che
l’Iran «è pronto a dialogare» lasciando intendere che è disposto ad intavolare
un negoziato sulla questione nucleare, come peraltro ha già fatto
bilateralmente coi russi, col varo, un paio di mesi fa, del cosiddetto
approccio step-by-step[9].
Si badi bene, non è mera retorica: l’Iran ha estremamente bisogno di
diversificare le fonti di approvvigionamento energetico visto che dipende
totalmente da un’unica risorsa scarsa, il petrolio. Ahmadinejad avanza anche
l’ipotesi di cooperare in altre aree, compresa la stabilizzazione
dell’Afghanistan, suo immediato vicino. Anche questa, si badi bene, non è
retorica: l’Iran ha da sempre timore delle pressioni esterne e fra i suoi
principi costitutivi vi sono l’indipendenza e la libertà. La caduta dei regimi
ostili talebano e baathista erano stati salutati positivamente ma il protrarsi
della permanenza delle truppe occidentali e americane sul suolo iracheno (fino
all’anno scorso) e afghano (tuttora in corso) non facilita certo le aspirazioni
ad avere la garanzia di un ambiente esterno sicuro e moltiplica le paure e la
sensazione di minaccia. Per questa ragione Ahmadinejad invoca il ritiro delle
truppe.
Non è un caso, poi, che l’eco della
notizia del possibile (e poi effettivo) rilascio dei due cittadini americani,
detenuti in Iran per più di due anni con l’accusa di spionaggio, sia coincisa
con la missione iraniana all’Assemblea Generale. Il Presidente insieme con il
suo Ministro degli Esteri Ali Akbar Salehi ne hanno pubblicamente auspicato la
liberazione, generando l’ira dei vertici del potere giudiziario che hanno, in
effetti, la legittima competenza in questa materia. Ecco come la complicata
partita di potere interna all’Iran si lega al tentativo operato da Ahmadinejad
di puntare i riflettori su di sé, apparendo insolitamente morbido alla vigilia
di un importante appuntamento internazionale.
In sostanza, valutare come puramente
ideologico il discorso pronunciato da Ahmadinejad all’ONU è un’operazione che non tiene conto dei complessi
fattori alla base dei rapporti fra Iran e Stati Uniti. La retorica, che pure è
una costante nei suoi discorsi, va distinta dalle mosse con cui l’Iran cerca di
sopravvivere in un ambiente regionale da sempre assai ostile. L’America dovrà
presto rendersi conto, tuttavia, che l’Iran ha bisogno dell’energia nucleare
per scopi civili. Dovrà sempre di più accettare il ruolo della Russia,
riconoscendo al contempo le ambizioni persiane. Un negoziato basato sullo
scambio fra il riconoscimento di questo diritto da parte americana e la
rinuncia ad una tecnologia dual-use
da parte iraniana potrebbe essere un buon punto di partenza. L’attivismo
dell’Iran in Medio Oriente ed in Asia minore, la necessità di trovare un
viatico per le questioni energetiche ed il potere declinante dell’America
potrebbero essere gli ingredienti necessari (anche se non sufficienti) per
vedere realizzato quel riavvicinamento di cui l’Iran ha bisogno. Occorrerà però
attendere con prudenza e disillusione le mosse di un Obama che soffre in
politica interna, incalzato dai repubblicani e dalle vicine elezioni
presidenziali oltre che dai sempre delicati rapporti che le amministrazioni
statunitensi intrattengono con i gruppi di pressione filoisraeliani – ne dà
ennesima prova la posizione americana in merito alla richiesta presentata
direttamente da Abu Mazen all’Assemblea generale di veder riconosciuta la
Palestina come Stato membro dell’ONU.
[1] La trascrizione del
discorso di Mahmoud Ahmadinejad è reperibile al seguente sito web: http://publicintelligence.net/mahmoud-ahmadinejad-speech-to-un-general-assembly-transcript-september-22-2011/.
Il video, fornito da PBS è reperibile su youtube al seguente sito web: http://www.youtube.com/watch?v=jBSF2Snj5uM
[2] Una fra le teorie che
maggiormente ha esercitato una influenza sugli orientamenti di politica estera
degli Stati Uniti, riecheggiando sotto forma di numerose volgarizzazioni nel
dibattito pubblico, è quella proposta da Samuel Huntington ne Lo scontro delle civiltà. Il politologo
di Harvard assumeva che la religione fosse l’elemento prioritario di una
civiltà e su questa base prospettava un futuro di conflittualità fra le
maggiori civiltà mondiali, Islam ed Occidente in primis. La teoria ha senza dubbio un enorme potere esplicativo,
poiché isola una sola variabile che, peraltro (ed è questo il pregio), è stata
abbondantemente trascurata nella riflessione teorica internazionale. Ma
malgrado il notevole fascino che essa suscita, omette di considerare le
profonde differenze che lacerano le comunità all’interno delle stesse civiltà
prese singolarmente; e, per ciò che riguarda l’Islam, il profondo conflitto fra
sciiti e sunniti. Personalmente, aderendo ad una prospettiva realista di
analisi della politica internazionale, ritengo che gli Stati, e solo loro,
continueranno ad esercitare il potere preponderante poiché in essi, e solo in
essi, ricade il momento della decisione politica.
[3] Renzo Guolo, Il partito di
Dio, Guerini e Associati, 2004.
[6] Su questo punto, si vedano Trita Parsi, Treacherous alliance, Yale University Press 2007, pag. 235 e Kayan
Barzegar, Iran’s foreign policy after
Saddam, The Washington Quarterly, gennaio 2010, pag. 177.
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