A che punto è la guerra
in Afghanistan? Quali sono gli obiettivi attuali? E’ oggettivamente complicato
rispondere a questi interrogativi. Tuttavia, dal paese in cui fu lanciato
l’intervento armato dell’autunno 2001 provengono notizie che parlano di
trattative in corso fra l’Amministrazione Obama e niente meno che il Mullah
Omar. Gli americani sembrano aver abbracciato una linea di cauto realismo che
segna una rottura abbastanza netta con la precedente Amministrazione Bush. Il
livello dei costi di questa guerra rimane sempre altissimo; la prospettiva del
ritiro, il cui inizio è annunciato per il 2011 (ma che finirà non prima del
2014), non è affatto confortante; i risultati sul mero piano
strategico-militare sono, dopo nove anni, insoddisfacenti.
Effettivamente l’idea di
pompare denaro per aumentare la presenza militare ha finora tradito le attese:
come già accadde negli anni Ottanta, all’epoca della lunga guerra afghana fra le
forze del comunismo sovietico e quelle del fondamentalismo islamico,
l’incremento della potenza militare dell’occupante non ha fatto altro che
produrre una sempre maggiore coesione fra la popolazione autoctona, accrescendo
la determinazione dei guerriglieri a ricacciare il nemico all’esterno dei propri
confini. Come dimostravano già le campagne in Vietnam ed in Iraq, gli strateghi
americani sembrano non aver imparato alcunché dall’esperienza delle guerre
contro gli indiani dei secoli XVII e XVIII. Non hanno compreso la difficoltà
intrinseca della guerra asimmetrica, un tipo di conflitto irto di ostacoli
quali ad esempio la particolare e spesso ostile morfologia del territorio, le
avverse condizioni atmosferiche, il morale del popolo invaso.
Per questa ragione, la
nuova Amministrazione Obama ha adottato, da un po’ di tempo, una concezione
della politica che potremmo definire meno manichea. Ovvero, in primis,
intavolare una seria trattativa con quella parte dei talebani insediati nel sud
dell’Afghanistan, che sembrano avere tutta l’intenzione di venire a patti con
gli Stati Uniti e, in secundis, dichiarare la propria contrarietà
rispetto a qualsiasi trattativa con al-Qaeda. Inoltre, come suggerisce la
formula giornalisticamente di successo AfPak, la strategia di Obama mira a
concentrare l’attenzione anche sul Paese guidato dal Presidente Zardari. Non
fosse altro perché gli americani si sono finalmente resi conto dell’estrema
influenza a doppio filo che lega il regime pakistano ai gruppi legati proprio
ad al-Qaeda. Le ragioni di questa relazione sono prettamente geopolitiche: il
Pakistan è notoriamente dotato dell’arma nucleare e ha tutto l’interesse per
ammansire e “tenersi buoni” i gruppi terroristi onde evitare ribaltamenti
interni.
Tuttavia, appare
problematico quello che risulta essere un vero e proprio sostegno del regime
pakistano al terrorismo jihadista; la qual cosa rischia di costituire il
bastone fra le ruote che la coalizione occidentale certamente non si aspetta.
Inoltre, l’intensificazione dei bombardamenti nelle zone pachistane del
Waziristan in cui sono concentrate fazioni jihadiste contrarie ad ogni
ipotesi di pacificazione, ha indispettito non poco Islamabad. E’ così che,
trattando con una fazione molto influente nella regione di Kandahar – quella
che fa capo, appunto, al Mullah Omar – gli Stati Uniti si barcamenano, per quel
che possono , dialogando con un gruppo ma continuando a bombardare in maniera
mirata gli altri. In questa situazione, inoltre, si inserisce l’operazione
attuata dalla Cia che, prevedendo l’utilizzo di droni, velivoli pilotati
dall’esterno, ha consentito qualche giorno fa di sventare gli attacchi jihadisti
preparati in territorio pakistano e diretti contro Paesi europei.
E’ all’incrocio tra
queste fitte trame e questi delicatissimi equilibri che si inserisce la
strategia di Obama. Il Presidente americano sa che le trattative condotte
unicamente con una fazione difficilmente condurranno ad una normalizzazione
totale dei rapporti all’interno della regione AfPak. Ma, accanto
all’addestramento militare a cui è sottoposto il personale locale, questa
soluzione pare essere, al momento, l’unica idonea all’obiettivo di una ritirata
strategica, la cui attuazione conoscerà ragionevolmente tempi non brevi e che
non deve passare pubblicamente per sconfitta ma per “afghanizzazione” del contesto.
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