Vi sono almeno tre elementi che è
bene prendere in considerazione a proposito dell’idea patrocinata dalla nuova
Amministrazione statunitense e sostenuta dall’Europa di promuovere l’Iran quale
inedito partner cui allargare il dialogo previsto per tentare di risolvere le
sempre più intricate questioni che riguardano il Medio Oriente ed il mondo
islamico.
In primo luogo è arrivata la
smentita del viaggio del Ministro degli Esteri Frattini previsto entro la fine
di marzo a Tehran, avente il fine di convocare il governo iraniano alla
conferenza del G8 di giugno sulle questioni Afghanistan-Pakistan: la visita è
stata rinviata. In seconda istanza, nei giorni scorsi
è giunto anche l’invito all’Iran da parte del Segretario di Stato Usa Clinton a
prender parte alla conferenza internazionale ad alto livello sotto l’egida
delle Nazioni Unite prevista per il 31 marzo all’Aja. Esso si somma al processo
di normalizzazione dei rapporti avviato dalla Nato con la Russia, dopo sette
mesi di stallo seguiti al conflitto caucasico. Da ultimo, bisogna comunque
tener conto di come la posizione dell’Iran faccia a pugni, su molte,
troppe questioni ed ormai da diverso tempo, con l’idea di un negoziato aperto
anche allo Stato persiano. E’ dall’analisi di questa
situazione che bisogna tentare di comprendere quale ruolo l’Iran possa giocare
nella soluzione del problema del terrorismo e della stabilizzazione in
Afghanistan.
La nuova linea di politica estera
inaugurata dalla Presidenza Obama lascia intravedere l’incedere di un cauto
realismo al posto del fin troppo esasperato idealismo
che aveva caratterizzato i due mandati di Bush jr. E’ vero, essa ha quale asse
portante l’idea di evacuare l’Iraq per lasciarlo finalmente al suo popolo, per
concentrare gli sforzi sul teatro afghano. Ma è altrettanto vero che
l’obiettivo della guerra al terrorismo rimane prioritario nell’agenda politica
Usa. La parola d’ordine è la medesima. Era stato lo stesso Obama a dichiarare
nel discorso inaugurale: “a coloro che cercano di raggiungere i propri
obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che
il nostro spirito è più forte e non può essere infranto”. Chi era, infatti, così
ingenuo da immaginare che un cambio di colore alla Casa Bianca potesse portare
la superpotenza ad usare solo la carota e non più (anche) il bastone?
Considerazione avvalorata, peraltro, dalla tendenza sempre più marcata – anche
per via della crisi economica – del sistema internazionale a transitare verso
una configurazione multipolare quanto alla distribuzione di potenza.
La
questione principale consiste nel considerare costi e benefici, nell’analizzare
vantaggi e svantaggi che deriverebbero dall’accreditare l’Iran quale nuova
potenza con cui avviare una qualche forma di dialogo. L’Iran è già a tutti gli
effetti una potenza regionale sotto molteplici profili: quello economico,
facendo dipendere dalla ricchezza del suo sottosuolo l’approvvigionamento di
molti Paesi europei, incluso il nostro; quello politico, dal momento che le
guerre in Afghanistan e in Iraq avviate sotto l’Amministrazione Bush, hanno
eliminato due attori che ne minacciavano l’autorità, sia per quello che
riguarda il discorso islamista (i Taliban) sia per quello che attiene al confronto
per il potere nella regione (Saddam). Non va dimenticato che l’Iran è il
principale finanziatore e sostenitore ideologico di organizzazioni assai
radicate nel proprio territorio che praticano da anni forme più o meno
riconosciute di terrorismo nella regione (Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah),
per quanto vada comunque precisato che si tratta di un terrorismo di matrice
localistica e non abbia la portata globale di quello qaedista. Non va, inoltre,
trascurato come l’Iran si stia muovendo da diversi anni per sviluppare capacità
nucleari. Gli esperti calcolano che nel breve volgere di pochi anni, la
produzione di petrolio sarà appena sufficiente per assorbire la domanda interna
e l’Iran non riuscirà più ad esportare una sola goccia di petrolio. (poiché
manca il know-how necessario a
trasformare il greggio in prodotti di uso comune come la benzina). Tale
prospettiva dà linfa ai sostenitori del programma di arricchimento dell’uranio
avviato dal Paese e su cui insiste pesantemente Ahmadinejad. Il problema esiste,
è reale e la soluzione nucleare pare la scelta politica più idonea per
risolvere le piaghe di un’economia in ginocchio. Tuttavia, bisogna considerare
come il binomio costituito dall’ipotesi (ormai quasi una certezza, secondo
molte fonti) di sviluppare tecnologia dual
use, associata alle sortite dell’ex sindaco di Teheran circa il destino
dello Stato di Israele, non faccia dormire sonni tranquilli a diversi Stati
occidentali, per quanto tali sortite vadano cautamente inserite all’interno di
un contesto fortemente propagandistico.
Considerati
questi fattori, quanto conviene all’Occidente e all’America accreditare l’Iran
quale partner per risolvere le questioni legate al proliferare del terrorismo?
Essendo già l’Iran una potenza regionale di fatto, le manca solo la
legittimazione internazionale per agire come un cane sciolto ovunque abbia
interessi di egemonia o di potenza, convinta di potersi muovere molto più
liberamente di quanto faccia già ora. Quanto può pesare l’apertura all’Iran sul
piano dei rapporti degli Stati Uniti con Paesi arabi quali l’Arabia Saudita, la
Giordania, l’Egitto e il Marocco (quest’ultimo tra l’altro ha interrotto pochi
giorni fa le relazioni diplomatiche proprio con l’Iran)? Sono questi gli
interrogativi che più di tutti necessitano di una risposta. Si spera che
l’Occidente, a differenza del recente passato – il riferimento è in merito
all’intervento in Iraq – si trovi non solo ad adottare una linea politica più
realista e, quindi, lungimirante, ma agisca di concerto facendo emergere quella
coesione senza la quale i problemi globali difficilmente potranno essere
affrontati.
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