La decisione di bombardare la
Striscia di Gaza, presa a metà della scorsa settimana dal governo israeliano, non
può essere letta semplicemente come una rappresaglia legittima, ancorché
sproporzionata, in risposta ai lanci di razzi Al-Qassam che in precedenza
avevano colpito il territorio israeliano. Dopo sette giorni dall’inizio della
controffensiva, il tributo di sangue è già altissimo. I morti fra i soli palestinesi
superano le 100 unità, a cui si aggiungono 700 feriti[1].
Nel lancio di missili ha perso la
vita Ahmed Al-Jabaari, il capo della branca militare di Hamas, l’organizzazione
islamonazionalista che controlla la Striscia dal giugno 2007 in seguito all’estromissione
di Fatah. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha richiamato 75.000
riservisti, allo scopo di approntare una operazione di terra entro 72 ore qualora
Hamas non ottemperi al soddisfacimento di sei richieste: una tregua di almeno
15 anni; l’immediata cessazione del traffico di armi ed il trasferimento di
queste a Gaza; stop al lancio di razzi da parte palestinese e stop agli
attacchi ai soldati presenti al confine con Gaza; diritto di Israele di dare la
caccia ai terroristi in caso di attacco o se ottiene informazioni di un attacco
imminente; il valico di Rafah rimarrà aperto ma gli attraversamenti del confine
fra Gaza e Israele rimarranno chiusi; esponenti politici dell’Egitto,
capeggiati da Mohammad Morsi, saranno i garanti di qualsiasi accordo per il
cessate il fuoco. Ciò vuol dire che l’accordo sarà sostenuto dall’establishment politico egiziano invece
che da quello di sicurezza[2].
Sembra assai complicato che Hamas
possa accettare in toto la lista
delle condizioni poste da Israele e che quindi si pervenga facilmente ad una
tregua. Chi stabilisce, ad esempio, se un attacco sia da considerarsi o meno
imminente? Inoltre, anche le richieste avanzate dagli islamisti stessi al
governo di Gerusalemme – tra cui la rimozione del blocco navale, la fine delle
uccisioni mirate e dei raid di confine – potrebbero essere difficili da
accogliere. Nel frattempo, però, il governo egiziano si è prontamente schierato
con Hamas, manifestando solidarietà per le vittime innocenti. A suggellare la
rinnovata amicizia politica fra i due governi confinanti è stata la visita del
primo ministro egiziano Hisham Qandil. Dalla Thailandia, il neoeletto
Presidente degli Stati Uniti Barak Obama, pur ribadendo il diritto di Israele
all’autodifesa, ha anche manifestato preoccupazione e invocato una tregua[3].
Al contrario, dall’Europa, così come dall’Iran, acerrimo nemico di Israele,
finora praticamente nessun segnale. Che cosa ha da guadagnare allora Israele
nella circostanza in cui attivasse realmente una campagna aerea e di terra
volta alla sconfitta definitiva di Hamas?
Bisogna convincersi che la
questione palestinese, agli occhi di Israele, è in questa fase un semplice
strumento di una strategia che ha obiettivi ben più grossi e rilevanti quali il
nuovo Egitto del presidente Morsi, la Turchia, ma soprattutto l’Iran e Obama.
Innanzitutto occorre sottolineare che
alla prontezza di Israele all’uso della forza quando si tratta di colpire i
palestinesi, fa da contraltare l’inazione di fronte al tanto strombazzato stato
di avanzamento del programma nucleare iraniano, presentato come una minaccia esiziale
dal regime di Gerusalemme. Infatti, finora, alla retorica incendiaria di Netanyahu
contro l’Iran, culminata con lo show tenuto all’ultima Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, non ha fatto seguito alcuna azione concreta. A testimonianza del
fatto che, anche se nelle dichiarazioni ufficiali dei suoi esponenti politici Israele
addita l’Iran quale suo nemico mortale, esso sembra comunque in grado di
valutare razionalmente costi e benefici di un’eventuale aggressione ad una
potenza regionale come l’Iran. E, sino a questo momento, i fatti hanno
chiaramente confermato che Israele si guarda bene dal farlo in maniera
unilaterale. Non conviene affatto intraprendere un’azione in questo senso. Attaccare
l’Iran potrebbe verosimilmente istigare la reazione dei movimenti islamisti
della regione alleati di Tehran (Hezbollah in
primis) e significa colpire al cuore gli interessi economici di Cina e
Russia. Troppo rischioso.
In una situazione dinamica come
quella presente, con un Medio Oriente sconvolto dalle rivoluzioni della
primavera araba e con i nuovi equilibri geopolitici che risultano dalla nascita
di nuovi regimi come quello egiziano, la sicurezza di Israele, nell’immaginario
del suo establishment, risulta oltremodo
messa a rischio. L’approdo al potere della Fratellanza Musulmana al Cairo non
fa altro che creare le premesse per l’emergere di un nuovo asse islamista
sunnita con Hamas, basato su una solidarietà di natura ideologico-religiosa; il
quale si aggiunge alla perenne minaccia avvertita dalla politica nucleare di Tehran.
Persa la Turchia, con cui i rapporti si sono definitivamente incrinati nel
biennio 2009-2010, e allontanandosi anche l’Egitto, Israele si trova come non
mai isolato. Sono lontanissimi i tempi in cui ad orientare le relazioni
regionali di Gerusalemme era la “dottrina della periferia”.
Bombardare Gaza, allora, suona più come
un segno di debolezza da parte di un Netanyahu già entrato in campagna
elettorale e che mira, con un atto che concerne la dimensione securitaria dello
Stato di Israele, a rinsaldare il fronte interno operando la politica del rally around the flag. E’ il segnale
lanciato ad Obama esattamente quattro anni dopo l’operazione Piombo Fuso – anch’essa
scatentata subito dopo il voto presidenziale americano – avente lo scopo di
valutare quali sono i suoi piani nel prossimo quadriennio e di metterlo alla
prova. Lo fa nella consapevolezza che con l’Iran regni uno strano equilibrio fondato
su una retorica reciprocamente rovente ma anche sullo stallo politico e
militare. Inoltre, anche a causa dei suoi problemi interni, è difficile che Tehran
si attivi militarmente in difesa dei palestinesi. E lo fa nella percezione che la
Turchia non può che assistere da spettatore indiretto, essendo alle prese con
una questione vitale come il conflitto siriano. Così, lanciando la palla ad
Obama, Israele si attende che il presidente americano si schieri, operando una
scelta di campo in modo ufficiale. Alla base dei reali obiettivi di Netanyahu
vi è la volontà che si esplicitino i nuovi equilibri regionali per sapere quale
ruolo potrà giocare l’America.
Obama aveva aperto il suo primo
mandato pronunciando messaggi di distensione e di apertura verso il mondo
islamico (celebre e ficcante fu il suo discorso al Cairo) senza però poi agire
con la dovuta decisione per risolvere i problemi che incendiano il Medio
oriente, a partire dalla questione del nucleare iraniano. Netanyahu ha deciso
di attuare una provocazione che però, a differenza dell’inerzia mostrata di
fronte al pericolo iraniano, risulta, questa sì, irrazionale. I bombardamenti
di Gaza, infatti, non fanno altro che accrescere il risentimento del mondo arabo
e islamico nei confronti del “nemico sionista” dando fiato agli estremisti
islamici. Proprio per questa ragione, Obama e gli Stati Uniti hanno solo da
guadagnarci. Gli strumenti diplomatici non utilizzati appieno negli ultimi
quattro anni potrebbero essere la chiave per una svolta davvero epocale nella
storia del Medio oriente e per tentare di trovare un percorso risolutivo alla “causa
delle cause” islamiche.
Come ricorda un documento inviato ad
Obama qualche mese fa da alcuni generali americani con il sostegno attivo del
NIAC, alle sfide poste dai problemi in Medio oriente non si può rispondere sempre
e solo con soluzioni militari[4].
Se la politica delle sanzioni nei confronti del regime iraniano non ha del
tutto prodotto i risultati sperati – poiché al vuoto lasciato dalle imprese
occidentali corrisponde un incremento della presenza di imprese cinesi – l’Iran
sembra comunque più disposto che in passato ad accettare i negoziati. Non va
dimenticato che nel corso del 2012 non solo è stato riattivato un canale di comunicazione
con l’AIEA – che a inizio anno ha inviato degli esperti in territorio iraniano
per monitorare alcuni siti nucleari – ma fra aprile e giugno si sono tenuti ben
tre incontri di alto livello fra Tehran e il gruppo del 5+1 (i membri
permanenti del CdS più la Germania). E’ vero che gli sforzi diplomatici tentati
quest’anno non hanno raggiunto lo scopo, ma lo spazio per riprenderli esiste.
Obama deve vincere le enormi
riserve provenienti dall’establishment
iraniano che una politica di confronto ultratrentennale ha enormemente
esasperato. Nella percezione dei decisori di Tehran gioca un ruolo fondamentale
l’immagine che essi hanno dell’America, vista come un attore che non ha mai
realmente perseguito la politica dell’engagement.
E’ stato proprio il passaggio da Khatami a Ahmadinejad a segnare pesantemente
questa visione delle cose e il livello di sfiducia maturato nei confronti dell’America
così come dell’istituto del dialogo è una diretta conseguenza di ripetuti passi
falsi quali la mancata intesa sulla questione afghana. Se Khatami aveva creduto
nella politica del dialogo, il fallimento della stessa ha portato la fazione
degli ultraconservatori a rigettare la cooperazione e a considerare i segnali
di dialogo come una truffa. E’ così che si spiegano circostanze contrastanti
come lo stallo politico con gli Stati Uniti ma allo stesso tempo i discreti
risultati ottenuti, anche grazie alla ruolo facilitatore di fattori come quello
economico, nella diplomazia bilaterale sulla questione nucleare attuata negli
ultimi due anni con paesi come Turchia e Russia[5].
Diversamente dal credo comune, il
regime degli Ayatollah ha operato in politica estera con profondo pragmatismo e
prudenza. La retorica contro lo Stato di Israele va giudicata per quello che è:
retorica, appunto. Il concetto di zero-problems
foreign policy with neighbors sembra allora essere molto più tagliato per
descrivere le mosse di Tehran piuttosto che quelle di Ankara, come invece tanto affannosamente
quanto vanamente si ostina a dichiarare Ahmet Davutoglu a proposito della
politica estera del suo paese. Nei giorni scorsi, il Ministro degli esteri iraniano
Ali Akbar Salehi si è detto disposto e desideroso di restaurare la diplomazia
col 5+1 sulla questione nucleare[6].
Forse non facilita le cose l’incidente
di qualche settimana fa che ha visto aerei da guerra iraniani sparare ad un
drone americano senza colpirlo[7].
Ciononostante, sono quelli sopra enumerati i dati di fatto positivi che Obama può e deve
cogliere. E’ questa l’opportunità che può e deve sfruttare. E’ assai probabile
che, come afferma l’insigne esperto di questioni iraniane Gary Sick, sarà
necessario prendere tutti gli accorgimenti affinché i paesi arabi e Israele non
siano portati a credere che un’eventuale intesa vada a loro danno[8].
E’ una sfida che l’incumbent alla
Casa Bianca è chiamato ad affrontare e a vincere. La nuova amministrazione
americana ha la grande opportunità di ribadire la propria egemonia politica in
quella regione, crollata negli ultimi anni oltre che per limiti oggettivi anche
per volontà propria (come in occasione della guerra in Libia). Se non lo farà,
non solo Obama verrà ricordato, com’è già stato detto, esclusivamente per
essere stato il primo presidente nero e nulla più, ma il vuoto politico
lasciato dall’America verrà occupato dalle potenze in ascesa, Russia e Cina in primis.
[1]http://www.nytimes.com/2012/11/20/world/middleeast/israel-gaza-conflict.html?ref=global-home&_r=0,
consultato il 21 novembre 2012.
[2] http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4308099,00.html,
consultato il 21 novembre 2012.
[3] http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4307890,00.html,
consultato il 19 novembre 2012.
[4] http://tehrantimes.com/politics/96145-say-no-to-a-war-of-choice-with-iran-retired-us-generals-to-obama,
consultato 21 novembre 2012.
[5] In realtà l’accordo
raggiunto con Ankara nel maggio 2010 e che prevedeva l’invio in Turchia di uno
stock di 1.200 kg di uranio per la riconversione è poi fallito. Con la Russia
invece ha funzionato con successo la collaborazione per l’attivazione della
centrale di Bushehr che produrrà fino a 1.000 megawatt di elettricità.
[6] http://www.tehrantimes.com/politics/103247-only-leader-should-decide-on-iran-us-direct-talks-salehi,
consultato il 21 novembre 2012.
[7]http://www.payvand.com/news/12/nov/1105.html,
http://www.payvand.com/news/12/nov/1073.html,
http://www.payvand.com/news/12/nov/1072.html,
consultati il 21 novembre 2012.
[8] http://edition.cnn.com/2012/11/16/opinion/sick-mideast/index.html,
consultato il 21 novembre 2012.
Interessante analisi, pur tenendo conto di tutti i fattori chiave della questione, si discosta dalla "questione" israeliana di questi giorni nel finale andando a concentrarsi, a parere di chi scrive, troppo sulla Repubblica Islamica. Rimane comunque un post di pregio, molto più profondo e "studiato" di molti editoriali di ben più prestigiose testate.
ReplyDeleteGrazie per il commento. E' un articolo ampio ma se alla fine mi sono concentrato sull'Iran è perché credo, come ho specificato quasi subito, che quello sia l'obiettivo vero di Netanyahu e dei "falchi" dell'amministrazione israeliana. L'intreccio fra le vicende di Israele e Iran negli ultimi (quasi) 35 anni è talmente intricato che è difficile parlare di uno di due soggetti senza parlare anche dell'altro.
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