Con la vittoria di Obama e la
campagna elettorale americana alle spalle, è ora possibile discutere su basi più
realiste la riapertura di un dialogo con l’Iran sulla questione nucleare. E’
più semplice fare delle previsioni che non risultino più influenzate dai meri
calcoli tattici in vista del consenso, ma siano il plausibile esito di una
strategia di lungo periodo. Durante la campagna elettorale, e per tutto il 2012, non si è fatto altro che parlare di un possibile attacco all’Iran, sostenuto in
particolar modo da Israele e dal suo premier Benjamin Netanyahu. Quasi che la
minaccia continua della guerra dovesse tradursi concretamente in una operazione
militare vera e propria. In realtà, benché la comunità internazionale abbia
addirittura assistito allo show del premier israeliano all’ultima Assemblea
generale delle Nazioni Unite, nessuna azione è stata mai intrapresa.
E’ ragionevole concludere che
finora si sia trattato in gran parte di un bluff
reciproco, come grossomodo un anno veniva evidenziato in un articolo del New York
Times[1]
ed in un altro a firma dell’esperto di relazioni fra Iran e Stati Uniti, Trita Parsi[2].
Con la precisazione che, se certamente il bluff di Netanyahu è stato finora tale,
altrettanto non si può dire a proposito dell’Iran. Certo, alzare la voce quando
ci si trova sotto minaccia è un modo per simulare il possesso di capacità maggiori a quelle di cui
realmente si dispone, ma è parimenti vero che in Occidente è diffusa la
consapevolezza che un attacco all’Iran provocherebbe non solo la reazione di
tutti quei movimenti islamisti – sciiti e non – nella regione, ma farebbe
precipitare il Medio Oriente in una guerra dai contorni opachi, in cui a Israele risulterebbe poco chiaro comprendere quali rischi l’Europa e l’America sarebbero disposti ad assumersi, senza tener conto degli interessi che legano paesi come
la Cina e la Russia al regime di Tehran.
A differenza che nel recente
passato, oggi, con un mandato di quattro anni ancora tutto da espletare, la
parola passa ad Obama. Come spiegato altrove[3],
la stessa guerra degli otto giorni organizzata da Israele contro la Striscia di
Gaza è stata un test con cui Gerusalemme ha inteso sperimentare un attacco all’Iran
mettendo alla prova il neoeletto presidente degli Stati Uniti.
I termini della questione sono
noti: l’Iran, membro del TNP avanza il diritto, che ama proclamare sacrosanto,
a dotarsi di una tecnologia nucleare a scopi civili. Tuttavia, gli Stati Uniti
e la comunità internazionale (ma è bene enfatizzare il peso giocato da
Israele) temono che dietro al programma nucleare iraniano si celino intenti
bellici con cui il regime degli Ayatollah progetterebbe non solo di modificare
in proprio favore gli equilibri regionali, uscendo da quell’isolamento politico
ed economico in cui è costretto da 34 anni, ma anche di minacciare l’esistenza
di Israele. Su questo tema, insistenti sono le voci che agitano lo spettro delle famose ma
controverse parole di Ahmadinejad pronunciate nel novembre 2005 alla conferenza
sul “Mondo senza sionismo”[4].
La realtà è che ormai da tempo l’Iran
avverte la necessità di diversificare al più presto le proprie fonti di
approvvigionamento. Il petrolio, che rappresenta l’80% delle entrate del Paese,
è una risorsa destinata ad esaurirsi; senza contare che il sistema di sanzioni
economiche, inasprito per volontà dell’Occidente proprio nel corso del 2012,
sta strangolando l’economia iraniana[5].
Se lo scopo è quello di provocare un regime
change dall’interno, spingendo i cittadini iraniani a rivoltarsi contro i
propri governanti, l’obiettivo è finora fallito, come l’esperienza di iniziative
analoghe tentate con altri paesi (come l’Iraq di Saddam) suggerisce. Al
contrario, il rischio che le forze di regime tentino di capitalizzare il
consenso interno dirigendolo contro il grande ed il piccolo «Satana» è
altissimo. Non bisogna dimenticare che fra sei mesi si terranno le elezioni
presidenziali e che la battaglia per il potere interna all’Iran è ancora in
corso. Tutti gli argomenti, compresa la questione nucleare, saranno armi che
ognuna delle due fazioni principali brandirà per sconfiggere l’avversario.
Anni di retorica incendiaria da
entrambe le parti non hanno portato ad alcunché. I due fronti sono sempre sul
piede di guerra, ma sinora nessun conflitto militare è mai scoppiato realmente,
eccezion fatta per quelli avviati da Israele per interposta persona. I
tentativi di engagement praticati durante
l’anno appena trascorso sia per iniziativa dell’AIEA che del 5+1 non hanno
prodotto alcuna svolta. E ciò non fa che favorire i progressi dell’Iran verso l’acquisizione
della capacità nucleare. Tehran non è disposto a rendere condizionale la sua
pretesa, anche se nel recente passato ha dimostrato di poter accettare ispezioni e scambi (swap) per il riprocessamento dell’uranio
con paesi come Turchia, Brasile e Russia. Sono il muro di sfiducia costruito
negli anni e le reciproche immagini negative a provocare lo stallo continuo
nelle relazioni fra Iran e Stati Uniti.
Ecco allora che l’unica via
praticabile e sulla quale Obama dovrà spingere l’acceleratore è quella del
negoziato. Solo ripristinando la fiducia erosa nel tempo sarà possibile addivenire
ad una soluzione win-win. Né le sanzioni, né un intervento militare arresteranno la
volontà iraniana di dotarsi della capacità nucleare. L’inflessibilità su quest’unico punto – fermo e saldo nell’agenda iraniana – costringerà Obama a
dover scegliere di ascoltare le ragioni del dialogo piuttosto che quelle della
contrapposizione, queste ultime portate avanti dai gruppi che costituiscono la Israel lobby, quali
ad esempio il Washington Institute for Near East Policy o l’American Israel Public
Affairs Committee. L’America dovrebbe serenamente accettare l’esistenza di un
Iran nucleare ma posto sotto il controllo delle agenzie internazionali, laddove
le bargaining chip potrebbero essere un
più serrato monitoraggio sulla questione dei diritti umani in Iran e l’impegno
a cooperare sui problemi che più incendiano il Medio Oriente e per cui l’Iran ha
immediato interesse: Siria, Afghanistan e questione palestinese.
Se così non sarà, se si continuerà
ad incedere sulla strada del muro contro muro, la sicurezza di Israele non avrà
certo maggiori garanzie di rimanere immune, né il programma nucleare iraniano si
arresterà. Né, tanto meno, i pericoli per un’azione sconsiderata di Israele che preludano ad
un deflagrare della situazione a livello regionale si farebbero meno concreti.
[4] A tal proposito si veda l’interessante
punto di vista di Jonathan Steele, pubblicato sul Guardian il 14 giugno 2006: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2006/jun/14/post155.
[5] Si vedano i dato riportati
in questa analisi: http://www.fairobserver.com/article/impact-sanctions-iranian-society-and-artists.
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