E’ ripreso con l’incontro
organizzato il 26 e 27 febbraio ad Almaty, Kazakistan, il dialogo sul problema
nucleare fra l’Iran e il gruppo del «5+1». Le trattative con i cinque Paesi
aventi potere di veto all’ONU più la Germania si erano interrotte nove mesi fa,
in occasione del meeting di Mosca il
18 giugno 2012. La due giorni in Asia centrale è servita per porre nuovamente
sotto i riflettori quell’annosa questione che, a causa del braccio di ferro in
atto fra i diversi attori che ne sono protagonisti, sta ormai da troppo tempo
lasciando strascichi sulla situazione economica dell’Iran – nel 2012 le vendite
di petrolio si sono più che dimezzate e la valuta interna ha perso metà del suo
valore[1].
Il vertice kazako è solamente un primo step
di un percorso che porterà le sette potenze ad incontrarsi ad Istanbul il 18
marzo e poi nuovamente ad Almaty il 5 aprile[2].
I decisori iraniani vivono la
questione nucleare come una ragione esistenziale. Raggiungere la piena capacità
nucleare consentirebbe al Paese di alleggerire non di poco la sua dipendenza
dalla risorsa su cui si regge la sua economia e che ne fa un rentier-state: il petrolio. Non sono
pertanto disposti a rinunciare al programma e su questo punto c’è unanimità fra
le varie fazioni di regime. Secondo la posizione ufficiale, l’energia nucleare
serve all’Iran per scopi civili, come fonte di energia alternativa per il
fabbisogno nazionale. D’altra parte, le potenze occidentali, e gli Stati Uniti in primis, non sono convinti della
natura pacifica del programma e temono che dietro alla dimensione civile del
programma ve ne sia una militare; la quale, se sviluppata fino in fondo,
renderebbe l’Iran un Paese dotato di una ben maggiore capacità negoziale nelle
questioni regionali ed internazionali – storicamente, il vero obiettivo
strategico del suo establishment.
Infatti, al momento, l’isolamento dell’Iran dal punto di vista economico mina
fortemente la sua capacità politica persino nello scenario mediorientale. Va
però sottolineato che il 5+1 manca di compattezza e infatti l’Iran negli ultimi
anni ha sempre potuto contare sulla collaborazione (o, meglio, sulla mancata
contrapposizione) di Cina e Russia, che sono importantissimi partner
commerciali.
Di fronte a questa situazione, la
strategia dell’Occidente diventa quella di limitare i danni. La soluzione che
accomodi tutti, come da tempo si ripete, potrebbe essere quella di consentire
all’Iran di continuare ad arricchire l’uranio non oltre i limiti «di
sicurezza», aprendo però il suo territorio a più incisive ispezioni ai siti
nucleari che destano maggiore sospetto. Si ricorderà come, in occasione degli
incontri con l’AIEA all’inizio del 2012, l’Iran fu restio a consentire ai
delegati dell’Agenzia ONU di visitare il sito militare di Parchin. Finora è
stato difficile trovare un accomodamento che lasciasse tutti soddisfatti; le
soluzioni win-win cercate da Obama
tra il 2009 e il 2010 si sono risolte in un nulla di fatto. Nel frattempo,
l’Occidente ha perseverato con la politica delle sanzioni, alla quale,
cionondimeno, Russia e Cina si sono sempre opposte col risultato che l’economia
dell’Iran si è sempre più legata a quella di questi due giganti.
Tuttavia, stando alle dichiarazioni
di alcuni protagonisti dell’incontro di Almaty, qualcosa sembra essere mutato
rispetto a prima. Il gruppo del «5+1» chiede una battuta d’arresto nel processo
di arricchimento dell’uranio al 20%[3]
– livello con cui risulta difficile costruire una bomba nucleare efficace, ma
serve piuttosto fabbricazione di isotopi medici per curare i malati di cancro.
Dal regime di Tehran si esige la chiusura della centrale di arricchimento
dell’uranio di Fordo (nei pressi di Qom) che si trova sottoterra[4];
il sito risulterebbe infatti inespugnabile in caso di attacco militare da parte
di Stati Uniti e Israele[5].
In cambio, all’Iran è stato concesso un concreto alleggerimento delle sanzioni
sull’oro e sui metalli preziosi. L’offerta potrebbe essere la giusta occasione
per allentare la morsa che soffoca l’economia iraniana, al punto che il
negoziatore iraniano Saeed Jalili, si è detto ottimista definendo l’incontro
come «un punto di svolta». Effettivamente, questa è la prima volta che all’Iran
viene proposto un sostanziale allentamento del regime delle sanzioni. Di fronte
ad un «5+1» che dimostra di tendere la mano, sarà vitale per l’Iran dimostrare
di saper interpretare la sfida, cambiando atteggiamento e accettando la
richiesta che fino all’anno scorso era stata ripetutamente respinta. Dopotutto,
questa strada si fa via via più imperativa sia in ragione della situazione
economica, sia alla luce del problema costituito dalla sempre più consistente
mancanza di medicine[6].
Eppure, visti i precedenti su
questo stessa issue, urge molta
prudenza, occorre ridimensionare le aspettative circa esiti positivi ottenibili
al termine del processo negoziale. Per esempio, va ricordato come prima del
vertice alcuni funzionari iraniani, fra cui l’influente parlamentare Ala’eddin
Burujerdi, si siano espressi in maniera chiara contro la chiusura della
centrale nucleare di Fordo[7],
sito evidentemente irrinunciabile. Finora, effettivamente, né l’Iran né
tantomeno l’Occidente hanno mostrato di voler recedere dalle proprie posizioni
e, pertanto, il trade-off fra
alleggerimento delle sanzioni e arresto del programma nucleare rimane
irrisolto. Come già ricordato, il programma nucleare per l’Iran rappresenta una
ragione esistenziale e gli uomini dell’establishment
non si stancano mai di ripeterlo. Ribadendone la natura pacifica, anzi, Tehran
afferma l’inalienabilità di quel diritto appellandosi al Trattato di Non
Proliferazione nucleare. L’Ayatollah Khamenei ha recentemente ribadito che
accettare le condizioni poste dall’Occidente significa arrendersi alla sua
volontà e ciò è inammissibile. Secondo la Guida suprema, l’Iran non potrà
mostrarsi ragionevole finché l’Occidente non «rinuncerà ad un atteggiamento di
prevaricazione», non «commetterà più azioni malvagie» ma «rispetterà la volontà
del popolo iraniano»[8].
La retorica ufficiale, per quanto
aspra e sovente esagerata, rispecchia semplicemente l’elemento che pesa di più
nelle relazioni fra Iran e Stati Uniti: l’immagine negativa che i contendenti
conservano rispettivamente l’uno dell’altro. Gli oltre trent’anni di confronto
ideologico hanno portato i due soggetti a vedere nelle intenzioni dell’altro
piani diretti a minacciare la sicurezza nazionale. I continui fallimenti nel
tentativo di risolvere la questione nucleare – per effetto anche della radicalizzazione
delle forze che hanno controllato la politica in entrambi i Paesi nel decennio
seguente agli attentati del giorno 11 settembre 2001 – hanno sedimentato
l’«immagine del nemico» confermandola in ogni occasione in cui i due avversari
si sono relazionati l’uno con l’altro[9].
Tutto ciò ha finito per minare quasi irrimediabilmente la fiducia reciproca.
Tuttavia, va detto che,
realisticamente parlando, le possibilità per una soluzione negoziale esistono.
Per gli Stati Uniti si tratta di far ricorso alla cosiddetta «diplomazia
coercitiva» che, utilizzando con Tehran una dose equilibrata di bastoni e
carote, scongiuri due esiti implausibili: un Iran dotato della bomba ovvero il
conflitto militare. Le iniziative di Obama all’inizio di questo secondo mandato
lasciano sperare. Ma è necessario che questa volta si arrivi fino in fondo,
senza più tentennamenti.
[9] All’interno del campo della
IR theory si è da tempo sviluppato
uno specifico indirizzo d’impronta cognitiva che focalizza l’attenzione sul
concetto di «immagine del nemico» e sul fenomeno della «cognitive consistency». Su tutti, si vedano i lavori di Ole Holsti
e il monumentale Perceptions and Misperceptions in International Politics di Robert Jervis (1976).
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