In politica internazionale la sopravvivenza è di gran lunga il bene
supremo. Gli Stati sovrani lo sanno molto bene ed è fisiologico che facciano di
tutto per difenderlo; soprattutto perché un Governo ha precise responsabilità
politiche nei confronti degli elettori e dei cittadini tutti. Finora, qualsiasi
progetto idealista-cosmopolitico (Danilo Zolo direbbe “globalista”) di governo
mondiale, sulla scorta della tradizione di pensiero kantiano-kelseniana, è fallito
miseramente. La politica internazionale è ancora, piaccia o no, quel locus
selvaggio in cui si combatte l’hobbesiana “guerra di tutti contro tutti”.
Fin da quando ha proclamato la propria indipendenza, lo Stato di Israele
ha vissuto stretto nella morsa di una guerra permanente, non sempre
effettivamente combattuta, ma sempre pronta ad essere scatenata. Israele vive
un dilemma della sicurezza perpetuo, non potendo mai dormire sonni tranquilli.
Sovente, però, è accaduto che nelle circostanze in cui si è trovato ad essere
maggiormente minacciato o addirittura attaccato, abbia reagito in maniera
sproporzionata rispetto all’offesa subita. Finendo, conseguentemente, per
“passare dalla parte del torto”, uscendone politicamente indebolito e
rafforzando politicamente e psicologicamente l’avversario. E’ per questa
ragione, ad esempio, che è stato Hezbollah il vero vincitore della guerra dell’estate
2006.
Gli avvenimenti che due giorni fa hanno visto coinvolte le forze armate
israeliane sono il chiaro esempio della ricerca della sopravvivenza da parte di
uno Stato sovrano. La maggior parte dei commenti finora prodotti sui quotidiani
e dai politici focalizza l’attenzione soprattutto su due particolari: lo
svolgimento dell’azione avvenuto in acque internazionali e l'uccisione di 9 "pacifisti" da parte di Israele. Pare abbastanza evidente come Gerusalemme, stando così
le cose, ne esca pesantemente indebolita, politicamente in grave difficoltà.
Tutti i principali Governi occidentali, compreso l’alleato americano, si sono
infatti smarcati da quest’iniziativa che si configura senz’appello alcuno
quale violazione del diritto internazionale.
E’ altrettanto curioso, tuttavia, notare come quasi nessuno fra gli
stessi discorsi finora prodotti abbia abbracciato una prospettiva più ampia di
quella strettamente giuridica per oggettivamente commentare e valutare la vicenda. Il
diritto internazionale è uno strumento enormemente monco che serve a regolare i
rapporti entro la comunità internazionale. Manca, infatti, un Leviatano (sempre
per citare Hobbes) in grado di far rispettare le norme sanzionando eventuali
comportamenti devianti. Le relazioni internazionali, anche qui piaccia o no, si
fondano nientemeno che sull’anarchia, cioè sull’assenza di enti gerarchicamente
superiori agli Stati, venendo a mancare, quindi, lo stesso meccanismo di
comando-controllo che, almeno in teoria, entro i confini dei regimi democratici produce una certa adesione della comunità al sistema di norme,
associando al loro carattere di “legalità” quello di “legittimità”.
Nel XVII secolo il filosofo liberale John Locke affermava che i trattati
internazionali vanno considerati come chiffons de papier. Il crudo
realismo di questa definizione spiega la naturale sfiducia che esiste nei rapporti fra entità
statuali. Dalla ricostruzione della vicenda risulta che lo Stato d’Israele avesse intimato più volte alle navi che si stavano
dirigendo verso la Striscia di Gaza di deviare la propria rotta verso il porto di
Ashdod per sottoporle ad un controllo. Cionondimeno, queste hanno continuato a proseguire
verso il loro obiettivo. La sfida lanciata dalle sei navi “pacifiste”
sponsorizzate da una Turchia in cerca di nuovi equilibri internazionali era
troppo rischiosa perché Israele potesse chiudere gli occhi – come invece la
comunità islamica mondiale e quella pacifista occidentale avrebbero auspicato.
Le ipotesi che la Turchia stessa entri nell’UE si stanno riducendo sempre
maggiormente e
l’accordo sull’uranio firmato con Brasile e Iran, acerrimo nemico di Israele,
verbalizza questa ricerca di nuove fonti di legittimazione. Paradossalmente, lo
Stato turco cerca di far passare l’azione di Israele come un atto di guerra ed
invoca il dispositivo di cui all’articolo 5 del Patto Nato per mettere lo Stato
ebraico in ulteriore difficoltà ed imbarazzo.
Le immagini trasmesse in tv e su internet mostrano come, sulla nave
Marmora, ai tanti pacifisti ingenui si mischiassero militanti filo-Hamas,
persone violente che trasportavano armi quali coltellacci e spranghe e chissà
cos’altro. Persone violente che evidentemente remano contro le ragioni della
pace e che hanno attaccato violentemente i soldati israeliani, i quali, viene
da presupporre, non avevano altra opzione praticabile che difendersi anche con
l’uso della forza, sproporzionata o meno che fosse. Non si capisce dove stia il pacifismo di chi, vedendo un soldato calarsi giù da una fune, lo attacca violentemente con delle spranghe formando un gruppo di cinque-sei persone contemporaneamente. L’intervento
israeliano, per quanto deprecabile sul piano umano, era volto alla tutela
dell’interesse nazionale, la sopravvivenza. L’eventuale inazione di fronte ad
un tale episodio, infatti, avrebbe creato un precedente e incoraggiato i nemici
di Israele ad emulare gli “eroi” delle “navi della pace”. Magari ricorrendo
alla scusa degli aiuti umanitari e del pacifismo per trasferire armi di
qualunque tipo nella Striscia di Gaza, foraggiando Hamas.
Ci troviamo di fronte ad una situazione in cui, ponendo il focus della
discussione sulla morte dei 9 civili (ma civili fino a che punto?), si
preferisce guardare il dito anziché la luna, finendo per dare ragione a chi
rincorre lo scopo della distruzione dello Stato d’Israele.
No comments:
Post a Comment