Per la prima volta dopo ben quindici
mesi dall’ultimo incontro ufficiale risalente al gennaio 2011, le principali
potenze mondiali si sono riunite sotto la forma del 5+1 per trattare
direttamente con l’Iran sulla questione nucleare. L’andamento del meeting, tenutosi a Istanbul il 14
aprile, padrona di casa la Turchia, lascia cautamente sperare in una
possibile ancorché lontana soluzione dell’affaire.
L’Iran sta attraversando la fase
probabilmente più complicata
della situazione di
isolamento internazionale in cui si trova da anni. Nello scorso ottobre, dopo
la pubblicazione del dossier sul nucleare da parte dell’AIEA, una serie di
eventi infausti hanno esercitato ulteriori pressioni su Tehran. Fra le altre cose,
il vertice del potere é stato accusato di aver ordito un complotto per
assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti. La diffusione di questa
notizia, tutta da provare e probabilmente infondata, ha incrementato la
tensione, aumentando la paura nei confronti del regime, sospettato negli ultimi
anni, specialmente quelli della Presidenza Ahmadinejad, di avere avviato un
programma nucleare a scopi militari.
Le autorità iraniane hanno sempre smentito tale accusa, affermando che
il programma di arricchimento dell’uranio effettivamente in corso é in realtà finalizzato a scopi medici ed energetici di tipo civile. La
necessità di alimentare le centrali per la produzione
di energia elettrica é reale ed il petrolio é una risorsa che l’Iran faticosamente
riesce a convertire in prodotti finiti, a causa della mancanza di know-how. Dal canto suo, Israele, che
maggiormente afferma di temere un Iran dotato della bomba, ha dichiarato a più
riprese di voler attaccare militarmente il paese, colpendo le sue centrali. Ma
probabilmente una eventuale guerra si limiterebbe solo a ritardare e non a
bloccare definitivamente quel processo di arricchimento dell’uranio che si
ritiene abbia natura militare. Nemmeno Stuxnet, il virus col quale si é cercato di mandare in tilt
i computer che gestiscono il programma, né le uccisioni di alcuni scienziati
nucleari iraniani (per giunta, nemmeno tutti legati direttamente al programma
nucleare) dissuadono Tehran dal proseguire dritto per la propria strada. Pare
evidente, quindi, che continuando con la demonizzazione non si produrranno
risultati positivi.
La Turchia, al contrario, sta vivendo una fase
piuttosto florida e vivace delle sue relazioni internazionali. Nell’ultimo
decennio, coincidente col governo guidato dall’AKP, partito a tendenza
islamico-moderata, ha saputo approfondire le relazioni con diversi partner
regionali e la strategia perseguita é compendiabile sotto la formula ormai
arcinota di “nessun problema con i vicini”, stante a significare la volontà di
intrattenere relazioni buone con tutti i paesi confinanti e dell’area; una
volontà, come ama sottolineare spesso il Ministro degli esteri Davutoglu, che
si esplica nell’adozione di strumenti di soft
power piuttosto che di hard power
e nella scelta deliberata di giocare in prima linea la partita di principale
moderatrice in tutte le possibili questioni di tensione che possono affiorare
nella regione. Gli esempi attuali della crisi siriana e della questione
nucleare iraniana sono i più lampanti.
L’emergere della potenza della Turchia e le
sue mosse accorte sullo scacchiere mediorientale suggeriscono la sua vocazione
a recitare un ruolo di egemonia regionale. L’incidente della Mavi Marmara del
31 maggio 2010 va infatti letto in questo senso. Più che di un mero atto di sfida
diretto contro Israele, infatti, si é trattato di un chiaro segnale lanciato
dalla Turchia ai paesi vicini – Iran prima di tutti – stante a significare che,
ad oggi, chiunque intenda adottare una linea di politica estera attiva ed
assertiva nella regione dovrà vedersela con gli eredi dell’Impero Ottomano. E
questo segnale passa esattamente attraverso il tentativo di ergersi a nuovo
patrocinatore della “causa delle cause” islamiche, il conflitto
israelo-palestinese, fino all’altroieri, di competenza esclusiva iraniana.
Nella partita per gli equilibri mediorientali
troviamo, quindi, due paesi di cui la Primavera araba ha contribuito ad
accentuare l’importanza (la Turchia) e l’isolamento (l’Iran). La Turchia, com’é
piuttosto tipico della sua politica estera, ha adottato una strategia
attendista in Libia, per poi entrare in gioco in maniera più energica; rispetto
alla crisi siriana ha approfittato dell’adiacenza territoriale per ospitare sul
proprio territorio il fronte di opposizione al regime di Assad. L’Iran, al
contrario, si é ostinato a dipingere le rivolte arabe come motivate dal fattore
islamista ma ha faticato a trovare consensi e a proiettare il proprio potere
all’esterno, vista anche la sua natura di paese sciita in una regione a
maggioranza sunnita. Sembrano davvero lontani i tempi in cui, scalzati il
potere dei talebani dall’Afghanistan e di Saddam in Iraq, gli analisti si
focalizzavano sull’influenza crescente della cosiddetta “mezzaluna sciita”.
Ma i due paesi, in realtà, non sono affatto
nemici, né hanno in programma l’idea di farsi lo sgambetto in questa fase
cruciale per gli equilibri della regione. I continui nulla di fatto che finora hanno segnato il cammino delle discussioni sul nucleare (non
dimentichiamo i due recenti incontri di gennaio e febbraio in Iran con l’AIEA ed
il tentativo di accordo voluto da Obama nell’ottobre 2009) conferiscono alla
Turchia una grossa chance in termini di capacità di mediazione che Erdogan e
Davutoglu non potranno certo lasciarsi scappare. Il valore del P.I.L. turco e
la continua crescita economica quasi paragonabile a quella delle «tigri
asiatiche» ne fanno la principale potenza in Medio Oriente. La Turchia – ma non
solo essa: Russia e Cina condividono la medesima posizione – riconosce all’Iran
il diritto al nucleare nel rispetto del TNP. Un Iran nuclearizzato ma tenuto
sotto controllo non rappresenta una minaccia per questi paesi. Stati Uniti e Israele,
al contrario, hanno sempre dimostrato di non volersi fidare; ma ciò, essendo
una questione di volontà, é probabilmente da ascrivere a ragioni più
ideologiche che meramente materiali.
Non bisogna quindi crearsi illusioni a
proposito del prossimo incontro fra Iran e «P5+1» già fissato per il 23 maggio
a Baghdad, ma, date certe premesse, sperare in una soluzione della controversia
é più che lecito. Il regime di Tehran, nonostante sia fondato su una ideologia
fondamentalista e sia per ciò stesso dipinto sovente come un attore cieco ed irrazionale,
ha mostrato più volte una natura pragmatica nelle sue relazioni con diversi
paesi. Lo testimonia il grosso e crescente interscambio commerciale con la Turchia,
con cui le relazioni sono buone non solo sotto il profilo economico, ma anche
diplomatico – a parte i recenti dissidi circa la gestione della crisi siriana;
lo attesta la cooperazione strategica nell’ambito nucleare con la Russia, che nel
1995 si é presa in carico l’onere di riattivare i lavori per il funzionamento della
centrale di Bushehr, finalmente resa operativa lo scorso anno; lo conferma l’intesa
raggiunta con Turchia e Brasile nel maggio 2010 per il trasferimento di 1.200
kg di uranio debolmente arricchito per la conversione al 19,75% - un accordo voluto
da Obama e tracciato in termini molto simili era fallito solo sette mesi prima.
La questione nucleare é davvero spinosa e ha
tutti gli attributi per diventare esplosiva. Tuttavia, Obama ha bisogno di
portare a casa dei risultati positivi perché le elezioni si avvicinano
inesorabilmente. La soluzione bellica non sembra praticabile e Israele assai
difficilmente intraprenderà azioni unilaterali in quella direzione. La scelta
di puntare sulle sanzioni é anch’essa controproducente, essendo l’Iran uno dei
maggiori produttori mondiali ed essendo il suo petrolio molto ricercato: altrimenti,
il risultato sarebbe solo un ulteriore aumento del suo costo, a detrimento
della salute economica di molti paesi che ne dipendono, europei in particolare.
In una partita in cui molti attori possono registrare perdite e in cui nessuno
vuole rischiare più degli altri, un ruolo di assoluto rilievo potrà essere svolto
dalla Turchia. Sono le costrizioni ambientali (l’ambiente esterno) a
richiederlo; é la sua vocazione alla mediazione (il belief system) ad indicarlo. Se, come pare evidente, esiste uno spazio
per raggiungere un’intesa win-win, difficilmente
gli attori coinvolti opporranno resistenza in nome di vecchi e controproducenti
schemi ideologici.
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