Il risultato delle elezioni
parlamentari iraniane del 2 marzo non ha tradito le attese. Il blocco che fa
capo alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei ha ottenuto una facile vittoria
sbaragliando la concorrenza, come al solito resa monca ex-ante dal setaccio usato dal Consiglio dei Guardiani.
Quest’organo, i cui membri sono designati per metà dalla medesima Guida e per
l’altra metà dal vertice del potere giudiziario, ha infatti il potere di
sindacare l’ammissibilità dei candidati che si presentano alle elezioni: se
questi non sono graditi al regime, vengono esclusi dalla competizione
elettorale.
In verità, lo scontro si presentava
già limitato, semplificando, a due soli gruppi: il blocco dei conservatori
tradizionalisti legati a Khamenei e la fazione del Presidente Ahmadinejad. Una
partita che, quindi, ha rispecchiato gli equilibri interni al panorama politico
della Repubblica islamica così come si sono andati strutturando negli ultimi tre
anni. Dalla competizione, si trovavano sostanzialmente fuori i riformisti, già
pesantemente emarginati dalla vita politica del paese in seguito alle
contestatissime elezioni presidenziali dell’estate 2009.
Per tutto il periodo antecedente le elezioni, il regime aveva fato appello al popolo affinché si recasse copiosamente alle urne. Se le cifre ufficiali affermano che quasi due elettori su tre sono andati a votare (64,2% di affluenza), l’assenza di osservatori internazionali dovrebbe quanto meno rendere cauti gli analisti dallo stilare bilanci tanto ottimisti. La chiamata alle urne va letta, invero, più come una mossa utile a rilanciare la legittimità di un regime in crisi di consenso interno ed internazionale. Nel giro di dodici mesi, le cosiddette rivoluzioni arabe hanno totalmente ribaltato i rapporti di forza in Medio oriente e l’Iran ha visto gradualmente indebolirsi la propria posizione regionale – dopo anni in cui, in seguito alla rimozione di Saddam, forte preoccupazione aveva destato l’ascesa della cosiddetta «mezzaluna sciita».
Per tutto il periodo antecedente le elezioni, il regime aveva fato appello al popolo affinché si recasse copiosamente alle urne. Se le cifre ufficiali affermano che quasi due elettori su tre sono andati a votare (64,2% di affluenza), l’assenza di osservatori internazionali dovrebbe quanto meno rendere cauti gli analisti dallo stilare bilanci tanto ottimisti. La chiamata alle urne va letta, invero, più come una mossa utile a rilanciare la legittimità di un regime in crisi di consenso interno ed internazionale. Nel giro di dodici mesi, le cosiddette rivoluzioni arabe hanno totalmente ribaltato i rapporti di forza in Medio oriente e l’Iran ha visto gradualmente indebolirsi la propria posizione regionale – dopo anni in cui, in seguito alla rimozione di Saddam, forte preoccupazione aveva destato l’ascesa della cosiddetta «mezzaluna sciita».
L’affluenza alle urne, perciò, è
stata accolta con favore dal blocco di Khamenei che, così, da qui alle elezioni
presidenziali previste l’anno prossimo si preparerà a sferrare il colpo di
grazia al rivale Ahmadinejad.
Fazionalismo, una costante della politica interna
Il sistema politico iraniano, che
vede una competizione fra organi a legittimazione politica e organi a
legittimazione religiosa, è da sempre dominato dal fazionalismo. I conservatori
religiosi, al vertice del regime, controllano dal oltre trent’anni il potere.
Statalisti in politica economica, sono fortemente antiamericani in politica
internazionale. In politica interna i loro principali avversari, nell’epoca
successiva alla morte del Padre della Rivoluzione Ruollah Khomeini (1902-1989),
sono stati i conservatori pragmatici facenti capo ad Ali Akbar Rafsanjani
(Presidente nel periodo 1989-1997). Uomo tra i più ricchi del Paese, è stato
messo ai margini della politica iraniana in seguito alla sconfitta alle elezioni
presidenziali del 2005; pragmatico in politica estera ed accomodante con gli
Stati Uniti, adottò una linea di politica economica piuttosto liberale
(necessaria per risollevare le sorti di un’economia in ginocchio in seguito
alla guerra contro l’Iraq), pur non favorendo l’apertura del sistema politico.
In questa direzione, si sono mossi
invece i riformisti, guidati dall’hojjatoleslam
Muhammad Khatami, il quale fra il 1997 ed il 2005 ha cercato di avviare un
nuovo corso nella politica interna ed internazionale. Autenticamente liberale
sia in economia che in politica, sotto la sua presidenza l’Iran ha visto
l’apertura di spazi per la stampa libera e il proliferare delle opinioni più
diverse; in politica estera, ha tentato un rapprochement
con gli Stati Uniti, poi fallito a causa della reciproca e storica ostilità fra
i due paesi. La parabola riformista si è conclusa con la concomitante ascesa
del fronte radicale neoconservatore nel biennio 2003-2005. Con l’elezione di
Ahmadinejad a Presidente nel 2005, appoggiato tatticamente dai conservatori
tradizionalisti di Khamenei e a capo di una forza, i Pasdaran (Guardiani della Rivoluzione), che ha gradualmente
acquisito poteri enormi soprattutto in campo economico, la politica estera ha
ripreso i toni infiammati dell’antiamericanismo e dell’antisionismo tipici
dell’era khomeinista.
Le prospettive future
Lo scontro che si è giocato nella
recente tornata elettorale fa parte di una partita fra Khamenei ed Ahmadinejad
che si svolge in due tempi. La posta in palio è il potere politico ed economico
del paese: in sostanza, il controllo del regime. Il primo atto è stato vinto
dalla Guida. Da qui ad un anno tutto può accadere ma, al momento attuale, è già
possibile mettere le mani avanti e riconoscere che Ahmadinejad non gode dei
favori del pronostico. Nonostante egli sia un esponente del gruppo dei Pasdaran, con cui ha condiviso
l’esperienza formativa della guerra contro l’Iraq negli anni Ottanta, non è
detto che i vertici di questa organizzazione paramilitare siano disposti a schierarsi
con lui. Anzi, in occasione dello scontro fra i due protagonisti (consumatosi
nel 2011 intorno alla nomina di alcuni ministri-chiave del governo) il capo dei
Guardiani della Rivoluzione ha praticato l’endorsement
a favore della Guida.
E’ bene precisare che nella
gerarchia del potere in Iran, alla Guida spettano le prerogative più estese[1].
Questo aspetto «strutturale» non può essere messo in discussione e funziona a
detrimento delle possibilità di successo di Ahmadinejad. Su quest’ultimo pesano
inoltre almeno altri due elementi: sul piano materiale, lo scarso consenso di
cui gode tra diversi strati della popolazione per via delle drastiche misure
economiche adottate negli ultimi mesi[2];
sul piano delle risorse simboliche, il dissenso oppostogli dalla gerarchia
sciita tradizionalista a proposito di alcune teorie sull’Imam nascosto[3]
(da lui propagandate nel corso degli anni sotto l’influenza del suo consigliere
Esfandiar Rahim Mashaei) che delegittimano la credenza ufficiale della
religione proposta dal regime.
Di fronte a questo quadro, non
sembrano esserci spazi per aperture politiche come quelle tentate in passato da
Khatami. I riformisti sono ormai emarginati; Ahmadinejad ed i suoi accoliti sono in minoranza e non
dispongono delle risorse necessarie per tentare di prendere il potere; d’altra
parte i Pasdaran, il vero ago della
bilancia, sembrano finora aver mostrato maggiore fedeltà a Khamenei. La
situazione lo stallo. L’unica soluzione interna è un cambio al vertice del
regime. Se Khamenei venisse rimosso (cosa improbabile finché gode della
legittimità dell’Assemblea degli Esperti) o dovesse passare a miglior vita,
spazi di apertura politica potrebbero essere incoraggiati dalla nomina di una
nuova Guida con un approccio più simile a quello dell’ex Presidente Khatami. In
alternativa rimangono le soluzioni esterne. Un cambio di regime attuato con la
forza (a partire da un’iniziativa israeliana sponsorizzata dagli Stati Uniti)
potrebbe verosimilmente condurre ad un conflitto che getterebbe nel caos l’intera
regione, senza escludere gli interventi di potenze quali la Russia e la Cina.
Ma questo scenario non sembra plausibile. Credo che per il momento occorra
accontentarsi di attendere le sorti della crisi in Siria (unico alleato
strategico dell’Iran nella regione) o eventualmente sperare che il vento di
libertà che ha spirato nei paesi arabi nel 2011 attraversi i confini iraniani
coinvolgendo quell’enorme blocco sociale costituito da giovani e donne in cerca
di quegli spazi di opportunità che il regime degli Ayatollah ha fin dalla sua
nascita soffocato.
[1] Si veda l’articolo 110
della Costituzione modificata nel 1989. Fra i poteri della Guida vi sono i
seguenti: nomina dei vertici del potere giudiziario, delle forze armate e del
sistema radiotelevisivo; nomina dei sei membri religiosi del Consiglio dei
Guardiani e controllo del Consiglio per il discernimento (organo che risolve le
dispute fra Consiglio dei Guardiani e Parlamento); determinazione delle linee
generali della politica del Paese e supervisione dei poteri esecutivo,
legislativo e giudiziario; controllo delle principali fondazioni (bonyad) del Paese (attori preminenti
nella fornitura di servizi sociali alla popolazione).
[2] Pur ricevendo il plauso
delle principali organizzazioni internazionali, la decisione del Governo
Ahmadinejad di eliminare i sussidi alla benzina ed al gas naturale non ha
prodotto i risultati sperati (riduzione del peso dello Stato nell’economia per
farla ripartire); al contrario, ha generato un diffuso malcontento popolare.
Cfr. Jay Solomon, Farnaz Fassihi, Iran
redistributes health in bid to fight sanctions,
Wall Street Journal, 27 luglio 2011, http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304223804576448203609699930.html.
[3] Ali Chenar, The politics of the Hidden Imam, Tehran Bureau, 27 luglio 2011, http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/tehranbureau/2011/07/the-politics-of-the-hidden-imam.html.
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