L’evento di maggiore rilevanza
internazionale degli ultimi giorni è la rivolta del popolo egiziano contro il
regime della trentennale gestione di Mubarak. Consultando la stampa ed
ascoltando i telegiornali ho potuto osservare una straordinaria regolarità
nelle analisi prodotte riguardo alla vicenda in questione: diversi osservatori
ed analisti hanno tentato di instaurare un paragone con la famosa Rivoluzione
iraniana del 1979.
L’idea di base su cui si fonda la
comparazione ruota attorno alla focalizzazione sulle dinamiche interne al Paese
nordafricano. Come in Iran, la rivolta proviene dal basso; come in Iran, essa è
tesa alla destituzione di un capo alla testa di un regime visto come oppressivo
ed autoritario; come in Iran, il soggetto che potrebbe trarre beneficio dalla
ribellione è il movimento islamista. Sebbene il quadro delineato dai media
occidentali appaia persuasivo, esso sembra rispondere alle comprensibili ansie
e timori degli stessi governi e delle stesse opinioni pubbliche occidentali. Ma
ci sono anche analisti che prendono le distanze da tale prospettiva.
L’autorevole islamologo Olivier Roy, ad esempio, ritiene la rivolta egiziana
più assimilabile alla «Tehran della rivoluzione verde di due anni fa» e
considera remota la possibilità di un colpo di Stato islamico.
In realtà, diversamente da come
la pensa Roy al riguardo, gruppi islamisti possono tentare con successo di
andare al potere anche senza necessariamente passare attraverso un colpo di
Stato, ma in seguito ad elezioni (come dimostrano i casi di Hamas, Hezbollah,
AKP turco, oltre che il caso della vittoria del FIS algerino nel 1991, poi
annullata). Non è così remota l’eventualità che i Fratelli Musulmani, considerando
la loro densa presenza nella società egiziana, prendano il potere.
Approfittando dell’attuale fase di confusione, potrebbero prima stringere
un’alleanza tattica con le altre forze ostili al regime per poi eliminarle una
ad una dalla gestione del potere, proprio come fece il clero islamista in Iran
trent’anni fa. Si tratta di una possibilità, ma i possibili scenari che sono
molteplici e la prudenza con cui vanno trattati è d’obbligo.
Ad ogni modo, nelle analisi
comparate fatte in questi giorni un aspetto, a parer mio essenziale, le
indebolisce enormemente: la mancata considerazione dell’influenza del sistema
internazionale sulle vicende interne. Il discorso impostato dai media tiene sì
conto di attori esterni come Stati Uniti, Unione Europea, Israele, ma esso è
eccessivamente sbilanciato sulle vicende interne e non c’è traccia di una
spiegazione sistemica. In sostanza, che il destino del popolo egiziano sia
finire o meno sotto un regime islamista a guida Fratelli Musulmani sembra
dipendere totalmente da ciò che accadrà all’interno del Paese, con scarsa
considerazione per lo sfondo sul quale operano gli attori esterni.
E’ vero, è complicato comparare
casi diversi inseriti in contesti storico-internazionali differenti: come si fa
a paragonare l’Iran del 1979 con l’Egitto del 2011? Capisco la difficoltà.
Tuttavia alcuni elementi vanno analizzati.
La vittoria degli islamisti
iraniani nel 1979 poté compiersi, aprendo in seguito le porte all’instaurazione
di un regime totalmente in mano al clero, anche come conseguenza del tipo di
sistema internazionale dell’epoca e degli interessi allora percepiti come
prioritari. Il riferimento è alla Guerra fredda, un’epoca caratterizzata dallo
scontro politico, ideologico, economico e militare (anche se solo per interposta
persona) fra due attori che occupavano interamente la scena. Gli Stati Uniti
erano concentrati sul loro acerrimo nemico, il comunismo sovietico.
Fallita la distensione, gli anni Ottanta rappresentarono un decennio di corsa al riarmo, di continue prove di forza,
di conflitti mediorientali. La Rivoluzione iraniana venne vista con sospetto e
timore negli ambienti americani, ma non destava preoccupazione pari a quella
della minaccia comunista, la cui espansione andava ancora contenuta. E’
addirittura singolare che nella guerra afghana fra le forze del comunismo
sovietico e quelle del fondamentalismo islamico, gli Stati Uniti appoggiarono
le seconde.
Inoltre, gli eventi degli anni Settanta – disfatta militare e psicologica del Vietnam e crisi energetica – avevano messo
pesantemente in crisi gli Stati Uniti. Non era certo il caso di impantanarsi in
ulteriori teatri da cui sarebbe stato difficile uscire. Meglio concentrare
l’attenzione sulla minaccia allora percepita come primaria, l’Unione Sovietica,
e per il resto contenere senza troppa energia la secondaria minaccia islamista.
L’intervento della CIA per liberare gli ostaggi dell’ambasciata americana a
Tehran e il sostegno ambiguo dato all’Iraq nel conflitto contro l’Iran furono,
per l’appunto, tentativi timidi, indiretti e per lo più inefficaci di scalzare
il fondamentalismo islamico dal potere in Iran.
Prima che il fondamentalismo
islamico diventi una minaccia rilevante per gli Stati Uniti, occorre attendere
almeno gli anni Novanta e, prima di assurgere a nemico assoluto (utilizzo
volutamente questo aggettivo, considerata la visione missionaria e moralista
tipica della politica internazionale degli Stati Uniti, ed in particolare il
manicheismo con cui la Prima Amministrazione Bush ha costruito identità,
alleanze e minacce per rispondere al manicheismo islamista), il giorno 11
settembre 2001. La cristallizzazione del potere degli Ayatollah in Iran fu sì
conseguenza delle relazioni fra le diverse anime della Rivoluzione, ma
quell’esito è stato enormemente facilitato dall’esistenza di un sistema
internazionale più impermeabile di quello attuale – così come di attori
rilevanti più indifferenti di quelli odierni – alle considerazioni
sull’evoluzione e sulla minaccia dell’islamismo.
E’ in gran parte per questo
stesso motivo (ed è stupefacente che quasi nessuno ne discuta in maniera
chiara) che, al contrario, oggi il futuro dell’Egitto, qualunque sia l’esito
delle vicende interne, dipenderà anche da come gli attori interessati a
mantenere il fondamentalismo islamico lontano dal potere – Israele e Stati
Uniti in particolare – tratteranno la questione. Sono ormai dieci anni che
l’islamismo viene percepito come minaccia principale dalla superpotenza
globale; Israele inoltre confina proprio con l’Egitto e il suo carattere
ebraico fa dell’islamismo stesso una minaccia.
E’ significativo constatare che,
come si apprende dalle fonti di informazione, questa volta gli islamisti non
stanno svolgendo un ruolo rilevante nella conduzione della protesta, mentre nel
caso iraniano rappresentavano una delle anime principali della Rivoluzione. Ma
è altrettanto verosimile l’ipotesi che in caso di elezioni l’eventuale vittoria
dei fondamentalisti – che certo non tarderanno a presentarsi – costringerà gli
Stati Uniti ad una negoziazione mettendo però in crisi il loro ruolo in tutta
la regione. L’ideologia anti-americana e anti-israeliana della Fratellanza
unita alla storica sindrome da accerchiamento di cui soffre Israele faranno il
resto. Mai come adesso fattori internazionali come geografia e minaccia si
uniscono in un mix a tal punto esplosivo.