Friday, February 24, 2012

L'Iran prende tempo


Termina con un dichiarato insuccesso la missione dell’AIEA (l’ente delle Nazioni unite per l’energia atomica), impegnata a Tehran per due giorni (20-21 febbraio) con lo scopo di discutere e trovare una soluzione alla crisi innescata dal programma nucleare iraniano[1]. L’iniziativa avviene per la seconda volta nel corso delle ultime settimane[2]. La precedente visita, anch’essa capeggiata dal vicedirettore generale dell’AIEA Herman Nackaerts, si era svolta in un clima positivo generato dalla disponibilità iraniana ad aprirsi cautamente all’Occidente, pur lasciando irrisolte diverse questioni che nemmeno stavolta hanno ottenuto risposta.
Il principale motivo di «delusione»[3] riguarda il diniego opposto dalle autorità iraniane alla richiesta di visitare il sito nucleare di Parchin, nei pressi di Tehran, sospettato di ospitare strutture in cui sarebbero stati effettuati test militari. E’ probabile che in seguito a questo nulla di fatto, l’AIEA tenterà di organizzare un’ulteriore visita, ma per il momento la situazione rimane statica.

Thursday, February 16, 2012

L'Iran nel mirino


(posted on November 9th, 2011 at http://www.come2discuss.net/)

Quanto seriamente occorre prendere in considerazione le recenti minacce da parte israeliana di attaccare militarmente l’Iran, colpendo i suoi siti nucleari? Siamo davvero sull’orlo della terza guerra mondiale, come alcune voci cominciano ad insinuare? Per la verità, la retorica dei governanti dei due paesi, che ha sempre assunto toni elevati – dalla Rivoluzione del 1979, si intende – ha più di una volta lasciato presagire uno scontro militare che tuttavia non è mai esploso. Un conflitto armato fra Israele ed Iran è sempre stato nell’aria negli ultimi anni, soprattutto in seguito al giorno 11 settembre 2001, quando alcune teorie in voga negli ambienti del Washington consensus hanno fatto di tutto l’Islam un fascio, confondendo malamente lo sciismo col sunnismo, ma soprattutto il jihad globale con un islamismo di Stato il cui risentimento verso l’Occidente altro non era che la manifestazione più infuocata di una vieppiù pragmatica volontà di emanciparsi da un isolamento economico e politico soffocante.

Sappiamo com’è andata ed il penultimo libro di Trita Parsi, Treacherous alliance[1], ce lo spiega assai bene. Tehran aveva tentato a più riprese di instaurare un dialogo con Washington sforzandosi di volgere a proprio favore l’atout rappresentato dalla ricostruzione in Afghanistan, in seguito all’invasione militare atlantica dell’autunno 2001. All’epoca, a guidare l’esecutivo c’era ancora, al suo secondo mandato, il riformista Khatami, ovvero l’uomo che più di tutti aveva lanciato segnali di distensione all’America, orientando il discorso politico internazionale al «dialogo fra civiltà». Niente da fare. Gli Stati Uniti erano sembrati troppo scossi dalla più grande tragedia che la televisione avesse mai documentato in diretta e l’Amministrazione Bush, come testimoniato dai politologi americani John Mearsheimer e Stephen Walt[2], risultava eccessivamente influenzata da un gruppo di neoconservatori oltremodo vicini agli imperativi della sicurezza nazionale di Israele. Addirittura, puntare contro l’Iran, invece che contro l’Iraq di Saddam, era inizialmente nelle intenzioni di Gerusalemme.

Ahmadinejad all'Onu. La politica estera iraniana tra retorica e pragmatismo

(posted on September 24th, 2011 at http://www.come2discuss.net/)

E’ nel bel mezzo dello scontro al vertice per il potere in Iran che Mahmoud Ahmadinejad prende parte alla spedizione iraniana per partecipare ai lavori della 66ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il discorso pronunciato giovedì 22 settembre[1], durato poco meno di mezz’ora, è stato condito dalla retorica che tipicamente contraddistingue i discorsi del Presidente iraniano. Un insieme ben congegnato di sentimento antiamericano e terzomondismo che ha portato molte delegazioni occidentali a lasciare anzitempo l’aula; per giunta, com’era da attendersi, Israele non ha nemmeno presenziato.

Ma, se ascoltato con pazienza e fino alla fine, il discorso di Ahmadinejad non si configura esattamente come un ideologico e scriteriato attacco all’America. Soprattutto, occorre tenere conto non solo dell’attuale scontro al vertice interno all’Iran – da cui Ahmadinejad tenta in tutti i modi di uscire vincitore, sfruttando anche i consessi internazionali – ma della ormai più che trentennale vicenda politica della Repubblica Islamica. Fin dal 1979, e soprattutto durante gli anni Ottanta, la politica estera iraniana è stata contrassegnata da una buona dose di panislamismo che, a fasi alterne, è stato affiancato da un necessario e corposo ricorso al pragmatismo – in maniera più che evidente durante la Presidenza Rafsanjani (1989-1997). L’uso politico della religione, ovvero il ricorso alla ideologia islamista, è stata una risorsa usata sapientemente dall’élite al potere per fronteggiare il grado di isolamento internazionale a cui è sottoposta dai tempi della Rivoluzione khomeinista.

Wednesday, February 15, 2012

Mashaei, chi è costui? Lo scontro per il potere in Iran continua

(posted on http://www.come2discuss.net/, August 20th, 2011)

Probabilmente, per capire qualcosa del perdurante scontro al vertice delle istituzioni in Iran occorre approfondire lo sguardo su Esfandiar Rahim-Mashaei. Sullo sfondo del teatro politico si stagliano le elezioni Presidenziali del 2013. Ahmadinejad sa di non poter concorrervi in quanto la Costituzione Iraniana modificata nel 1989 pone il limite massimo di due mandati consecutivi. Così, Mashaei potrebbe essere l’asso nella manica che Ahmadinejad intende sfoderare per prolungare la sua presa sul potere esecutivo. Per essere ammesso a concorrere dovrà superare il vaglio del Consiglio dei Guardiani e vista la resistenza che l’attuale Presidente sta da tempo opponendo alla Guida è probabile attendersi una sua bocciatura. Lo scontro continua…

Nato nel 1960, Mashaei è, oltre che il consuocero di Ahmadinejad (sua figlia ha sposato il figlio di questi), anche suo amico e collaboratore. Nel luglio 2009, in seguito alle elezioni Presidenziali, Ahmadinejad lo ha nominato Primo vice-presidente, ma è stato immediatamente costretto a rinunciare alla carica poiché non gradito a Khamenei. Secondo la Costituzione, infatti, la nomina dei Ministri spetta al Presidente (art. 133), ma una consuetudine non scritta attribuisce alla Guida il potere di sindacare questa scelta[1]. Ciononostante, Ahmadinejad ha provveduto senza esitazioni a promuoverlo al vertice del suo staff.

Scontro al vertice del potere in Iran

(posted on http://www.come2discuss.net/, July 30th, 2011)

La Guida della Rivoluzione Islamica ha decretato l’istituzione del Consiglio per la risoluzione delle dispute fra Governo, Parlamento e potere giudiziario. Il nuovo organo, composto da cinque membri, sarà presieduto dall’Ayatollah Seyyed Mahmoud Hashemi Shahroudi (già a capo del potere giudiziario fra il 1999 ed il 2009) e si aggiungerà alla già folta pletora di organi che compongono l’intricata architettura costituzionale del sistema politico iraniano.

La decisione di Khamenei può essere interpretata come una mossa tattica sia per emarginare l’ex Presidente Rafsanjiani che per contrastare il potere in ascesa dell’attuale presidente Ahmadinejad. Inoltre, stando alla lettura fornita da alcune fonti, Shahroudi viene indicato come potenziale successore di Khamenei al vertice del potere quando questi uscirà di scena. La mossa di Khamenei arriva in un momento in cui è cruciale riacquistare il peso progressivamente perduto a causa della prepotente ascesa dell’ala militare dei neoconservatori. La partita fra le due principali fazioni attualmente al potere è solo all’inizio.

Il declino dell'America


(pubblicato su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ il giorno 24 marzo 2011)

Se c’è un dato delle vicende internazionali che deve allarmarci è l’inesorabile declino dell’America. Sono ormai anni, se non decenni, che i politologi si sbizzarriscono a formulare scenari che vedono il progressivo indebolimento dell’America, la cui perdita di potere relativo consente l’inevitabile ascesa di altri Stati nella scena internazionale.

Le modalità che hanno condotto all’intervento occidentale in Libia testimoniano ineluttabilmente questa tendenza, anzi per certi versi l’accelerano. Sia chiaro, l’America è ancora la più grande potenza al mondo almeno in termini economici e militari. Ma il ruolo giocato dagli Stati Uniti in queste settimane è a dir poco imbarazzante. Dal Segretario di Stato della più grande potenza al mondo non ti aspetti che giustifichi la scelta di non intervenire, accontentandosi della proclamazione di una no fly zone, adducendo il peso negativo dell’eredità acquisita in seguito alle campagne (piuttosto disastrose) di Iraq e Afghanistan. In realtà, dalla più grande potenza mondiale non ti aspetti proprio che si defili.

Gli Stati Uniti, dopo un decennio di politica estera dissennata sotto la guida dell’improvvido George W. Bush, sembrano aver invertito la rotta commettendo l’errore opposto, cioè peccando di inazione. L’Amministrazione Obama ha dato prova finora di non essere totalmente all’altezza delle sfide che provengono dal sistema internazionale. In realtà l’indecisione mostrata da Obama è un puro atto di volontà politica, indice di una strategia di disimpegno dalle vicende internazionali. La scelta di non annullare le visite in Brasile, Cile ed El Salvador, teatri assolutamente remoti rispetto a quello caldo mediterraneo, spiega tutto.

Il protagonista assoluto della vicenda in questione è il Presidente francese Sarkozy, in cerca di un consenso interno che è riuscito peraltro ad ottenere. Ma gli è stato volutamente lasciato un enorme margine di manovra. Gli è stata concessa su un piatto d’argento la possibilità di colmare l’inspiegabile vuoto politico lasciato dall’America. Non bisogna affatto cadere nella trappola di  confondere la prudenza (principio guida del realismo politico) con un vero e proprio atto di abbandono (il principio guida della politica estera USA fino alla Seconda Guerra Mondiale: l’isolazionismo di jeffersoniana memoria). Non sto dicendo che l’America avrebbe dovuto impegnarsi in una nuova guerra. Sto semplicemente affermando che avrebbe dovuto recitare un ruolo politico all’altezza della sua potenza. Anche impedendo a Sarkozy una così avventata iniziativa.

La scelta del disimpegno non può che favorire Paesi come la Russia o la Cina che hanno una proiezione globale degli interessi e sono intenzionati a delegittimare il ruolo politico dell’America. La Russia ha visto addirittura uno scontro interno al Cremlino fra il PresidenteMedvedev e il Premier Putin con quest’ultimo che non ha perso tempo per condannare il carattere medievale della Risoluzione 1973.

E noi europei? L’intervento in Libia mostra la netta spaccatura fra i Paesi del vecchio Continente e celebra il funerale di un progetto politico che in realtà non è mai nato. Al declino americano non fa da contraltare un’unione politica europea, tutt’altro: quell’asse franco-tedesco – lo storico motore dell’unità europea – la cui solidità aveva retto persino sul tema della guerra in Iraq, si è clamorosamente spezzato oggi su tale vicenda.

Paradossalmente, il sistema internazionale degli Stati era più sicuro durante lo scorso decennio. Politicamente, il mondo attuale è ormai multipolare. E, di conseguenza, assai più pericoloso.

Humanity or realpolitik?

(posted on http://www.dotduepuntozero.org/ and on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, February 26th, 2011)

It is hard to have ignored the great deal of comparisons made between last weeks’ Arab turmoil and the 1989 events following the fall of the Berlin wall. Such attempts hold a hidden hope, which I would describe as human. It is the hope that, as were the citizens of the post-communist nations, those of the Muslim nations will also be able to share forms of democratic political participation. Furthermore, it is the hope that the riots in question will trigger an economic development, which may lead to an increase in wealth. In fact,  such events generally end up in a price increase for the most common goods, such as bread.

E’ difficile non aver notato il profluvio di paragoni fra le rivolte arabe di queste settimane e gli eventi che sono seguiti al crollo del Muro di Berlino nel 1989. Il tentativo nasconde una grossa speranza che è prima di tutto umana: la speranza che, come allora i cittadini dei Paesi post-comunisti, anche oggi quelli dei Paesi arabo-musulmani possano conoscere forme di partecipazione politica assimilabili a forme democratiche, unite ad uno sviluppo economico che porti una maggiore ricchezza in termini di risorse per tutti. Non dimentichiamo infatti che queste rivolte seguono ad un’impennata dei prezzi dei beni di consumo più comuni, come ad esempio il pane.

Tuttavia, secondo me occorre maggiore prudenza nell’attività di comparazione. Sono più numerose le differenze fra il caso rappresentato dai Paesi arabi oggi e il caso dei Paesi post-comunisti nel 1989. In primo luogo, come ha notato Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa del 18 febbraio, all’epoca il mondo occidentale era interessato ad inglobare le realtà del blocco sovietico; ed in effetti, come dimostrano gli allargamenti di Nato e UE, quegli interessi hanno avuto seguito. Non si nota il medesimo interesse nei confronti dei Paesi arabi oggi.

In secondo luogo, bisogna considerare il tessuto sociale ed istituzionale dei Paesi arabi. Mentre nei Paesi post-comunisti si poteva trovare un minimo di società civile (caso da manuale la Polonia, col suo sindacato Solidarnosc e l’autonomia della Chiesa cattolica polacca – si veda l’ottima opera di Juan Linz e Alfred Stepan), riflesso di un qualche embrione di cultura liberale coltivato nel passato, nei Paesi arabi quello che manca è proprio questo ingrediente. E credo sia nettamente discriminante. In Libia, addirittura, prevalgono quei legami clanici e tribali che hanno spinto Khaled Fouad Allam ad ipotizzare il rischio di un “Afghanistan nel Mediterraneo” (il Sole 24 Ore, 23 febbraio) a causa della eccessiva frammentazione e mancanza di coesione nazionale. Sarebbe ingenuo e pericoloso pensare di poter esportare la democrazia (anche pacificamente) laddove una cultura democratica e liberale non esiste. L’esempio fornito dalla politica estera di Bush parla in maniera piuttosto eloquente.

In terzo luogo, c’è il rischio che il potere finisca nelle mani dei militari o dei fondamentalisti. In Egitto, la prima delle due ipotesi è già realtà: altro che transizione democratica, verrebbe da dire! Dunque, paragoni un po’ troppo affrettati. E, in ogni caso, l’ombra dei fondamentalisti rimane. Non mi riferisco tanto ad al-Qaeda o a quei gruppi che usano la violenza (i radicali) ma a chi propugna la cosiddetta islamizzazione dal basso. Il caso egiziano è emblematico. Lì i Fratelli Musulmani non hanno bisogno di bombe. La democrazia potrebbe benissimo aiutarli a prendere il potere. D’altra parte, dispongono di una rete di “welfare religioso” (scuole, ospedali, mense, servizi sociali) che hanno costruito nei decenni e grazie a cui hanno potuto avviare una lenta ma costante opera di proselitismo.

Onestamente, non saprei quale sia la migliore soluzione. Non è nemmeno il mio mestiere. Sul piano umano, è naturale sperare che le violenze cessino e che Gheddafi possa risponderne di fronte alla Corte di giustizia internazionale. D’altra parte, siccome credo che realpolitik e umanità stiano fra loro in un rapporto inversamente proporzionale, forse era meglio, almeno per noi italiani, la situazione precedente. Grazie alla personalità di Silvio Berlusconi, il nostro Paese ha tessuto legami con molti leader mondiali improntando la politica estera italiana a solidi rapporti bilaterali. Avevamo un ottimo rapporto sia con Mubarak che con Gheddafi. Anzi, da questo pinto di vista io parlerei di una coerente espressione della linea di politica estera italiana pur nell’avvicendamento di governi diversi. La Libia è un Paese dal quale dipendiamo enormemente in fatto di petrolio e gas. La realpolitik era una via obbligata. Certo, si può biasimare la firma del trattato italo-libico per aver in sostanza taciuto la questione del rispetto dei diritti umani e credo che l’Italia, avendo comunque un buon potere negoziale (siamo o no nella UE? Siamo o no nella Nato? Siamo o no alleati degli Stati Uniti?), avrebbe potuto pretendere qualcosa in più su quel versante da Gheddafi.

Rischiamo di andare incontro ad una situazione incontrollabile, sia per quanto riguarda il futuro politico ed istituzionale di quei Paesi (da cui, ripeto, dipendiamo parecchio in termini economici: saranno ancora nostri alleati?), sia per quello che riguarda i contraccolpi che possono seguire agli eventuali flussi migratori. Anche qui: umanità o realpolitik? Cioè, accoglienza totale o riaffermazione della sovranità statale (e quindi dei “confini”, l’unico strumento col quale si può discriminare fra cittadini e stranieri)? Si accolga chi si può accogliere. Ma non possiamo farci carico di tutti – soprattutto nel caso in cui, come afferma il Governo, dovessero arrivare fino a 200.000 persone e visto e considerato che la disoccupazione giovanile in Italia è al 29%. Le risposte concrete, ovviamente, sarà la politica a doverle dare.

Il peso del sistema internazionale sulla questione egiziana


(riflessione pubblicata su http://www.dotduepuntozero.org/ il giorno 3 febbraio 2011 - posted on http://www.dotduepuntozero.org/, February 3rd, 2011)

L’evento di maggiore rilevanza internazionale degli ultimi giorni è la rivolta del popolo egiziano contro il regime della trentennale gestione di Mubarak. Consultando la stampa ed ascoltando i telegiornali ho potuto osservare una straordinaria regolarità nelle analisi prodotte riguardo alla vicenda in questione: diversi osservatori ed analisti hanno tentato di instaurare un paragone con la famosa Rivoluzione iraniana del 1979.

L’idea di base su cui si fonda la comparazione ruota attorno alla focalizzazione sulle dinamiche interne al Paese nordafricano. Come in Iran, la rivolta proviene dal basso; come in Iran, essa è tesa alla destituzione di un capo alla testa di un regime visto come oppressivo ed autoritario; come in Iran, il soggetto che potrebbe trarre beneficio dalla ribellione è il movimento islamista. Sebbene il quadro delineato dai media occidentali appaia persuasivo, esso sembra rispondere alle comprensibili ansie e timori degli stessi governi e delle stesse opinioni pubbliche occidentali. Ma ci sono anche analisti che prendono le distanze da tale prospettiva. L’autorevole islamologo Olivier Roy, ad esempio, ritiene la rivolta egiziana più assimilabile alla «Tehran della rivoluzione verde di due anni fa» e considera remota la possibilità di un colpo di Stato islamico.

In realtà, diversamente da come la pensa Roy al riguardo, gruppi islamisti possono tentare con successo di andare al potere anche senza necessariamente passare attraverso un colpo di Stato, ma in seguito ad elezioni (come dimostrano i casi di Hamas, Hezbollah, AKP turco, oltre che il caso della vittoria del FIS algerino nel 1991, poi annullata). Non è così remota l’eventualità che i Fratelli Musulmani, considerando la loro densa presenza nella società egiziana, prendano il potere. Approfittando dell’attuale fase di confusione, potrebbero prima stringere un’alleanza tattica con le altre forze ostili al regime per poi eliminarle una ad una dalla gestione del potere, proprio come fece il clero islamista in Iran trent’anni fa. Si tratta di una possibilità, ma i possibili scenari che sono molteplici e la prudenza con cui vanno trattati è d’obbligo.

Ad ogni modo, nelle analisi comparate fatte in questi giorni un aspetto, a parer mio essenziale, le indebolisce enormemente: la mancata considerazione dell’influenza del sistema internazionale sulle vicende interne. Il discorso impostato dai media tiene sì conto di attori esterni come Stati Uniti, Unione Europea, Israele, ma esso è eccessivamente sbilanciato sulle vicende interne e non c’è traccia di una spiegazione sistemica. In sostanza, che il destino del popolo egiziano sia finire o meno sotto un regime islamista a guida Fratelli Musulmani sembra dipendere totalmente da ciò che accadrà all’interno del Paese, con scarsa considerazione per lo sfondo sul quale operano gli attori esterni. 

E’ vero, è complicato comparare casi diversi inseriti in contesti storico-internazionali differenti: come si fa a paragonare l’Iran del 1979 con l’Egitto del 2011? Capisco la difficoltà. Tuttavia alcuni elementi vanno analizzati.

La vittoria degli islamisti iraniani nel 1979 poté compiersi, aprendo in seguito le porte all’instaurazione di un regime totalmente in mano al clero, anche come conseguenza del tipo di sistema internazionale dell’epoca e degli interessi allora percepiti come prioritari. Il riferimento è alla Guerra fredda, un’epoca caratterizzata dallo scontro politico, ideologico, economico e militare (anche se solo per interposta persona) fra due attori che occupavano interamente la scena. Gli Stati Uniti erano concentrati sul loro acerrimo nemico, il comunismo sovietico.

Fallita la distensione, gli anni Ottanta rappresentarono un decennio di corsa al riarmo, di continue prove di forza, di conflitti mediorientali. La Rivoluzione iraniana venne vista con sospetto e timore negli ambienti americani, ma non destava preoccupazione pari a quella della minaccia comunista, la cui espansione andava ancora contenuta. E’ addirittura singolare che nella guerra afghana fra le forze del comunismo sovietico e quelle del fondamentalismo islamico, gli Stati Uniti appoggiarono le seconde.

Inoltre, gli eventi degli anni Settanta – disfatta militare e psicologica del Vietnam e crisi energetica – avevano messo pesantemente in crisi gli Stati Uniti. Non era certo il caso di impantanarsi in ulteriori teatri da cui sarebbe stato difficile uscire. Meglio concentrare l’attenzione sulla minaccia allora percepita come primaria, l’Unione Sovietica, e per il resto contenere senza troppa energia la secondaria minaccia islamista. L’intervento della CIA per liberare gli ostaggi dell’ambasciata americana a Tehran e il sostegno ambiguo dato all’Iraq nel conflitto contro l’Iran furono, per l’appunto, tentativi timidi, indiretti e per lo più inefficaci di scalzare il fondamentalismo islamico dal potere in Iran.

Prima che il fondamentalismo islamico diventi una minaccia rilevante per gli Stati Uniti, occorre attendere almeno gli anni Novanta e, prima di assurgere a nemico assoluto (utilizzo volutamente questo aggettivo, considerata la visione missionaria e moralista tipica della politica internazionale degli Stati Uniti, ed in particolare il manicheismo con cui la Prima Amministrazione Bush ha costruito identità, alleanze e minacce per rispondere al manicheismo islamista), il giorno 11 settembre 2001. La cristallizzazione del potere degli Ayatollah in Iran fu sì conseguenza delle relazioni fra le diverse anime della Rivoluzione, ma quell’esito è stato enormemente facilitato dall’esistenza di un sistema internazionale più impermeabile di quello attuale – così come di attori rilevanti più indifferenti di quelli odierni – alle considerazioni sull’evoluzione e sulla minaccia dell’islamismo.

E’ in gran parte per questo stesso motivo (ed è stupefacente che quasi nessuno ne discuta in maniera chiara) che, al contrario, oggi il futuro dell’Egitto, qualunque sia l’esito delle vicende interne, dipenderà anche da come gli attori interessati a mantenere il fondamentalismo islamico lontano dal potere – Israele e Stati Uniti in particolare – tratteranno la questione. Sono ormai dieci anni che l’islamismo viene percepito come minaccia principale dalla superpotenza globale; Israele inoltre confina proprio con l’Egitto e il suo carattere ebraico fa dell’islamismo stesso una minaccia.

E’ significativo constatare che, come si apprende dalle fonti di informazione, questa volta gli islamisti non stanno svolgendo un ruolo rilevante nella conduzione della protesta, mentre nel caso iraniano rappresentavano una delle anime principali della Rivoluzione. Ma è altrettanto verosimile l’ipotesi che in caso di elezioni l’eventuale vittoria dei fondamentalisti – che certo non tarderanno a presentarsi – costringerà gli Stati Uniti ad una negoziazione mettendo però in crisi il loro ruolo in tutta la regione. L’ideologia anti-americana e anti-israeliana della Fratellanza unita alla storica sindrome da accerchiamento di cui soffre Israele faranno il resto. Mai come adesso fattori internazionali come geografia e minaccia si uniscono in un mix a tal punto esplosivo.

Il pantano afghano

(riflessione pubblicata il giorno 30 settembre 2010 su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ - posted on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, September 30th, 2010)


A che punto è la guerra in Afghanistan? Quali sono gli obiettivi attuali? E’ oggettivamente complicato rispondere a questi interrogativi. Tuttavia, dal paese in cui fu lanciato l’intervento armato dell’autunno 2001 provengono notizie che parlano di trattative in corso fra l’Amministrazione Obama e niente meno che il Mullah Omar. Gli americani sembrano aver abbracciato una linea di cauto realismo che segna una rottura abbastanza netta con la precedente Amministrazione Bush. Il livello dei costi di questa guerra rimane sempre altissimo; la prospettiva del ritiro, il cui inizio è annunciato per il 2011 (ma che finirà non prima del 2014), non è affatto confortante; i risultati sul mero piano strategico-militare sono, dopo nove anni, insoddisfacenti.
Effettivamente l’idea di pompare denaro per aumentare la presenza militare ha finora tradito le attese: come già accadde negli anni Ottanta, all’epoca della lunga guerra afghana fra le forze del comunismo sovietico e quelle del fondamentalismo islamico, l’incremento della potenza militare dell’occupante non ha fatto altro che produrre una sempre maggiore coesione fra la popolazione autoctona, accrescendo la determinazione dei guerriglieri a ricacciare il nemico all’esterno dei propri confini. Come dimostravano già le campagne in Vietnam ed in Iraq, gli strateghi americani sembrano non aver imparato alcunché dall’esperienza delle guerre contro gli indiani dei secoli XVII e XVIII. Non hanno compreso la difficoltà intrinseca della guerra asimmetrica, un tipo di conflitto irto di ostacoli quali ad esempio la particolare e spesso ostile morfologia del territorio, le avverse condizioni atmosferiche, il morale del popolo invaso.
Per questa ragione, la nuova Amministrazione Obama ha adottato, da un po’ di tempo, una concezione della politica che potremmo definire meno manichea. Ovvero, in primis, intavolare una seria trattativa con quella parte dei talebani insediati nel sud dell’Afghanistan, che sembrano avere tutta l’intenzione di venire a patti con gli Stati Uniti e, in secundis, dichiarare la propria contrarietà rispetto a qualsiasi trattativa con al-Qaeda. Inoltre, come suggerisce la formula giornalisticamente di successo AfPak, la strategia di Obama mira a concentrare l’attenzione anche sul Paese guidato dal Presidente Zardari. Non fosse altro perché gli americani si sono finalmente resi conto dell’estrema influenza a doppio filo che lega il regime pakistano ai gruppi legati proprio ad al-Qaeda. Le ragioni di questa relazione sono prettamente geopolitiche: il Pakistan è notoriamente dotato dell’arma nucleare e ha tutto l’interesse per ammansire e “tenersi buoni” i gruppi terroristi onde evitare ribaltamenti interni.
Tuttavia, appare problematico quello che risulta essere un vero e proprio sostegno del regime pakistano al terrorismo jihadista; la qual cosa rischia di costituire il bastone fra le ruote che la coalizione occidentale certamente non si aspetta. Inoltre, l’intensificazione dei bombardamenti nelle zone pachistane del Waziristan in cui sono concentrate fazioni jihadiste contrarie ad ogni ipotesi di pacificazione, ha indispettito non poco Islamabad. E’ così che, trattando con una fazione molto influente nella regione di Kandahar – quella che fa capo, appunto, al Mullah Omar – gli Stati Uniti si barcamenano, per quel che possono , dialogando con un gruppo ma continuando a bombardare in maniera mirata gli altri. In questa situazione, inoltre, si inserisce l’operazione attuata dalla Cia che, prevedendo l’utilizzo di droni, velivoli pilotati dall’esterno, ha consentito qualche giorno fa di sventare gli attacchi jihadisti preparati in territorio pakistano e diretti contro Paesi europei.
E’ all’incrocio tra queste fitte trame e questi delicatissimi equilibri che si inserisce la strategia di Obama. Il Presidente americano sa che le trattative condotte unicamente con una fazione difficilmente condurranno ad una normalizzazione totale dei rapporti all’interno della regione AfPak. Ma, accanto all’addestramento militare a cui è sottoposto il personale locale, questa soluzione pare essere, al momento, l’unica idonea all’obiettivo di una ritirata strategica, la cui attuazione conoscerà ragionevolmente tempi non brevi e che non deve passare pubblicamente per sconfitta ma per “afghanizzazione” del contesto.

Sopravvivenza, bene supremo

(riflessione pubblicata su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ il giorno 2 giugno 2010 posted on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/June 2nd, 2010)


In politica internazionale la sopravvivenza è di gran lunga il bene supremo. Gli Stati sovrani lo sanno molto bene ed è fisiologico che facciano di tutto per difenderlo; soprattutto perché un Governo ha precise responsabilità politiche nei confronti degli elettori e dei cittadini tutti. Finora, qualsiasi progetto idealista-cosmopolitico (Danilo Zolo direbbe “globalista”) di governo mondiale, sulla scorta della tradizione di pensiero kantiano-kelseniana, è fallito miseramente. La politica internazionale è ancora, piaccia o no, quel locus selvaggio in cui si combatte l’hobbesiana “guerra di tutti contro tutti”.
Fin da quando ha proclamato la propria indipendenza, lo Stato di Israele ha vissuto stretto nella morsa di una guerra permanente, non sempre effettivamente combattuta, ma sempre pronta ad essere scatenata. Israele vive un dilemma della sicurezza perpetuo, non potendo mai dormire sonni tranquilli. Sovente, però, è accaduto che nelle circostanze in cui si è trovato ad essere maggiormente minacciato o addirittura attaccato, abbia reagito in maniera sproporzionata rispetto all’offesa subita. Finendo, conseguentemente, per “passare dalla parte del torto”, uscendone politicamente indebolito e rafforzando politicamente e psicologicamente l’avversario. E’ per questa ragione, ad esempio, che è stato Hezbollah il vero vincitore della guerra dell’estate 2006.
Gli avvenimenti che due giorni fa hanno visto coinvolte le forze armate israeliane sono il chiaro esempio della ricerca della sopravvivenza da parte di uno Stato sovrano. La maggior parte dei commenti finora prodotti sui quotidiani e dai politici focalizza l’attenzione soprattutto su due particolari: lo svolgimento dell’azione avvenuto in acque internazionali e l'uccisione di 9 "pacifisti" da parte di Israele. Pare abbastanza evidente come Gerusalemme, stando così le cose, ne esca pesantemente indebolita, politicamente in grave difficoltà. Tutti i principali Governi occidentali, compreso l’alleato americano, si sono infatti smarcati da quest’iniziativa che si configura senz’appello alcuno quale violazione del diritto internazionale.
E’ altrettanto curioso, tuttavia, notare come quasi nessuno fra gli stessi discorsi finora prodotti abbia abbracciato una prospettiva più ampia di quella strettamente giuridica per oggettivamente commentare e valutare la vicenda. Il diritto internazionale è uno strumento enormemente monco che serve a regolare i rapporti entro la comunità internazionale. Manca, infatti, un Leviatano (sempre per citare Hobbes) in grado di far rispettare le norme sanzionando eventuali comportamenti devianti. Le relazioni internazionali, anche qui piaccia o no, si fondano nientemeno che sull’anarchia, cioè sull’assenza di enti gerarchicamente superiori agli Stati, venendo a mancare, quindi, lo stesso meccanismo di comando-controllo che, almeno in teoria, entro i confini dei regimi democratici produce una certa adesione della comunità al sistema di norme, associando al loro carattere di “legalità” quello di “legittimità”.
Nel XVII secolo il filosofo liberale John Locke affermava che i trattati internazionali vanno considerati come chiffons de papier. Il crudo realismo di questa definizione spiega la naturale sfiducia che esiste nei rapporti fra entità statuali. Dalla ricostruzione della vicenda risulta che lo Stato d’Israele avesse intimato più volte alle navi che si stavano dirigendo verso la Striscia di Gaza di deviare la propria rotta verso il porto di Ashdod per sottoporle ad un controllo. Cionondimeno, queste hanno continuato a proseguire verso il loro obiettivo. La sfida lanciata dalle sei navi “pacifiste” sponsorizzate da una Turchia in cerca di nuovi equilibri internazionali era troppo rischiosa perché Israele potesse chiudere gli occhi – come invece la comunità islamica mondiale e quella pacifista occidentale avrebbero auspicato. Le ipotesi che la Turchia stessa entri nell’UE si stanno riducendo sempre maggiormente e l’accordo sull’uranio firmato con Brasile e Iran, acerrimo nemico di Israele, verbalizza questa ricerca di nuove fonti di legittimazione. Paradossalmente, lo Stato turco cerca di far passare l’azione di Israele come un atto di guerra ed invoca il dispositivo di cui all’articolo 5 del Patto Nato per mettere lo Stato ebraico in ulteriore difficoltà ed imbarazzo. 
Le immagini trasmesse in tv e su internet mostrano come, sulla nave Marmora, ai tanti pacifisti ingenui si mischiassero militanti filo-Hamas, persone violente che trasportavano armi quali coltellacci e spranghe e chissà cos’altro. Persone violente che evidentemente remano contro le ragioni della pace e che hanno attaccato violentemente i soldati israeliani, i quali, viene da presupporre, non avevano altra opzione praticabile che difendersi anche con l’uso della forza, sproporzionata o meno che fosse. Non si capisce dove stia il pacifismo di chi, vedendo un soldato calarsi giù da una fune, lo attacca violentemente con delle spranghe formando un gruppo di cinque-sei persone contemporaneamente. L’intervento israeliano, per quanto deprecabile sul piano umano, era volto alla tutela dell’interesse nazionale, la sopravvivenza. L’eventuale inazione di fronte ad un tale episodio, infatti, avrebbe creato un precedente e incoraggiato i nemici di Israele ad emulare gli “eroi” delle “navi della pace”. Magari ricorrendo alla scusa degli aiuti umanitari e del pacifismo per trasferire armi di qualunque tipo nella Striscia di Gaza, foraggiando Hamas.
Ci troviamo di fronte ad una situazione in cui, ponendo il focus della discussione sulla morte dei 9 civili (ma civili fino a che punto?), si preferisce guardare il dito anziché la luna, finendo per dare ragione a chi rincorre lo scopo della distruzione dello Stato d’Israele. 

Il diritto dell'Iran al nucleare

(riflessione pubblicata il giorno 9 ottobre 2009 su http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/ - posted on http://quartiereglobale-padova.blogautore.repubblica.it/, October 9th, 2009)


Chi ha stabilito che l’Iran non possiede il “diritto al nucleare”? Il problema è assai complicato dalla natura dei rapporti internazionali con quel Paese seguiti alla Rivoluzione del 1979. Tale questione va affrontata esaminando due aspetti: quello della necessità di produrre energia a fini civili e quello della pretesa a produrre uranio arricchito. Al problema si accompagna la retorica, spesso abusata dai vertici politici del regime, che fa presupporre scenari internazionali inquietanti.



Innanzitutto, è necessaria una premessa di ordine storico e sistemico. La politica internazionale si basa da almeno quattro secoli (le Paci di Westfalia del 1648 sono l’evento convenzionale) sostanzialmente su due principi: la formale eguaglianza degli Stati e l’affidamento delle decisioni ultime alla politica di potenza. Entrambi sono il riflesso della mancanza di un ente riconosciuto come superiore, il cosiddetto carattere anarchico del sistema. Anche il moderno diritto internazionale ha assimilato i due criteri nel sistema delle Nazioni Unite. Con la differenza che mentre il primo - fondandosi sul meccanismo per il quale ad ogni Stato corrisponde un voto all’interno dell’Assemblea Generale - è posto a tutela degli Paesi più insignificanti, il secondo - trovando riflesso speculare nella composizione e nel funzionamento del Consiglio di Sicurezza - consegna la potestà sulle decisioni più importanti alle grandi potenze. Per l’idea dell’eguale sovranità, non rilevano la dimensione geografica, l’entità demografica, la potenza politica, economica, militare del Paese. Per la politica di potenza invece sì. 

Ora, come dicevo all’inizio, la strada dell’Iran verso l’energia nucleare va analizzata sotto un duplice profilo. L’Iran è un Paese che registra fortissimi tassi di crescita demografica (in trent’anni la popolazione è raddoppiata) ed è un Paese “giovane”: metà della popolazione (circa 70 milioni di persone) è sotto i 25 anni. Tuttavia, l’economia fatica ad assorbire del tutto la forte domanda di lavoro (disoccupazione al 14%) e la stessa economia presenta gravi deficienze collegate alla sua natura di rentier State, cioè di Stato che vive di una rendita che gli deriva dall’ingente possesso di risorse naturali (è il secondo produttore Opec di petrolio e il secondo possessore di gas naturale al mondo).
 Il punto centrale del problema è che le riserve naturali sono esauribili. Prima o poi esse finiranno e si porrà il problema di trovare fonti di energia alternative. A ciò si aggiunge il fatto che l’Iran non possiede la tecnologia adeguata per trasformare il petrolio grezzo in prodotto finito. Vi riesce solo in parte ed è costretta ad esportarlo all’estero per farlo raffinare, per poi farlo rientrare e reimmetterlo nel mercato interno. Questa operazione provoca un’emorragia di denaro pubblico che presuppone alti costi del prodotto finito. Tuttavia, il costo di un prodotto come la benzina è pari a circa 9-11 centesimi di dollaro per litro. E’ l’imposizione di un “prezzo politico” che serve al mantenimento della legittimazione del regime. Si calcola, però, che nel breve volgere di pochi anni il Paese non sarà più in grado di esportare una sola goccia di petrolio. Da qui l’enfasi sulla necessità di ricorrere all’energia nucleare.

L’ambiguità che ruota attorno alla questione sta nei rapporti che il regime intrattiene con la comunità internazionale. L’esistenza di un programma nucleare destinato a scopi militari è databile agli Anni 50, cioè all’inizio della Guerra Fredda, ai tempi dello Shah Reza Pahlavi. All’epoca, e fino alla Rivoluzione del 1979, l’Iran rappresentava il principale alleato militare degli Usa in Medio Oriente fra i Paesi musulmani. Ma, da quando il regime degli ayatollah si è insediato a Teheran sotto lo slogan “Né Ovest, né Est, solo Islam” lo scenario è cambiato. Il Paese è uscito martoriato dalla guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini ha posto il problema della sopravvivenza di un regime fino ad allora fondato sulla riunione in una sola figura dell’autorità politica e religiosa. Negli anni successivi la politica estera del Paese è stata improntata ad un ragionevole pragmatismo e la fase di ideologizzazione seguita alla Rivoluzione è in parte scemata. Era evidente la necessità di instaurare legami di cooperazione economica con i Paesi europei che, come il nostro, avevano e hanno bisogno del petrolio. 
L’ascesa al potere di Ahmadinejad (che in realtà, vista la configurazione istituzionale interna al regime, sembra più essere solo una pedina nelle mani di Khamenei) ha spinto verso una nuova fase di ideologizzazione. La retorica utilizzata dal Presidente ex-Pasdaran sulla distruzione dello Stato di Israele, il sostegno ai movimenti sciiti nella regione fra cui Hezbollah in Libano, lo spalleggiamento di Hamas: sono tutti fattori che provocano i timori dei Paesi occidentali. Inoltre, Ahmadinejad invoca spesso il ricordo del lasciapassare concesso dagli Usa negli Anni 50. 

Si può comprendere, quindi, come la questione dell’energia nucleare sia fortemente invisa all’Occidente e si possono ragionevolmente capire le motivazioni che stanno dietro ai tentativi di bloccare il programma. Ma se da un lato l’Iran ha oggettivamente la necessità economica di accedevi a fini civili, dall’altro è la natura dell’ordine internazionale a conferire all’Iran il diritto di dotarsi di un programma per fini militari. Lo dice la politica di potenza, lo afferma l’assenza di un governo mondiale, lo conferma il possesso della bomba atomica da parte sia di altri Paesi extra-regionali (Stati Uniti in testa), sia regionali (Israele e Pakistan). Il punto di vista iraniano è ovvio: la comunità internazionale deve accettare la rivendicazione di un “diritto al nucleare”. D'altra parte è palese la sfida cui si trova davanti l’Occidente stesso: fermare le ambizioni di un Paese che mira da anni all’egemonia regionale in Medio Oriente. Dalla soluzione di questo dilemma dipenderanno non solo le relazioni fra l'Iran e l'Occidente ma la stabilità dell'intera regione mediorientale negli anni a venire.

Iran, un dialogo difficilmente praticabile

(riflessione pubblicata su http://www.come2discuss.net/ il 20 marzo 2009 - posted on March 20th, 2009 http://www.come2discuss.net/)

Vi sono almeno tre elementi che è bene prendere in considerazione a proposito dell’idea patrocinata dalla nuova Amministrazione statunitense e sostenuta dall’Europa di promuovere l’Iran quale inedito partner cui allargare il dialogo previsto per tentare di risolvere le sempre più intricate questioni che riguardano il Medio Oriente ed il mondo islamico.

In primo luogo è arrivata la smentita del viaggio del Ministro degli Esteri Frattini previsto entro la fine di marzo a Tehran, avente il fine di convocare il governo iraniano alla conferenza del G8 di giugno sulle questioni Afghanistan-Pakistan: la visita è stata rinviata. In seconda istanza, nei giorni scorsi è giunto anche l’invito all’Iran da parte del Segretario di Stato Usa Clinton a prender parte alla conferenza internazionale ad alto livello sotto l’egida delle Nazioni Unite prevista per il 31 marzo all’Aja. Esso si somma al processo di normalizzazione dei rapporti avviato dalla Nato con la Russia, dopo sette mesi di stallo seguiti al conflitto caucasico. Da ultimo, bisogna comunque tener conto di come la posizione dell’Iran faccia a pugni, su molte, troppe questioni ed ormai da diverso tempo, con l’idea di un negoziato aperto anche allo Stato persiano. E’ dall’analisi di questa situazione che bisogna tentare di comprendere quale ruolo l’Iran possa giocare nella soluzione del problema del terrorismo e della stabilizzazione in Afghanistan.

La nuova linea di politica estera inaugurata dalla Presidenza Obama lascia intravedere l’incedere di un cauto realismo al posto del fin troppo esasperato idealismo che aveva caratterizzato i due mandati di Bush jr. E’ vero, essa ha quale asse portante l’idea di evacuare l’Iraq per lasciarlo finalmente al suo popolo, per concentrare gli sforzi sul teatro afghano. Ma è altrettanto vero che l’obiettivo della guerra al terrorismo rimane prioritario nell’agenda politica Usa. La parola d’ordine è la medesima. Era stato lo stesso Obama a dichiarare nel discorso inaugurale: “a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere infranto”. Chi era, infatti, così ingenuo da immaginare che un cambio di colore alla Casa Bianca potesse portare la superpotenza ad usare solo la carota e non più (anche) il bastone? Considerazione avvalorata, peraltro, dalla tendenza sempre più marcata – anche per via della crisi economica – del sistema internazionale a transitare verso una configurazione multipolare quanto alla distribuzione di potenza.

La questione principale consiste nel considerare costi e benefici, nell’analizzare vantaggi e svantaggi che deriverebbero dall’accreditare l’Iran quale nuova potenza con cui avviare una qualche forma di dialogo. L’Iran è già a tutti gli effetti una potenza regionale sotto molteplici profili: quello economico, facendo dipendere dalla ricchezza del suo sottosuolo l’approvvigionamento di molti Paesi europei, incluso il nostro; quello politico, dal momento che le guerre in Afghanistan e in Iraq avviate sotto l’Amministrazione Bush, hanno eliminato due attori che ne minacciavano l’autorità, sia per quello che riguarda il discorso islamista (i Taliban) sia per quello che attiene al confronto per il potere nella regione (Saddam). Non va dimenticato che l’Iran è il principale finanziatore e sostenitore ideologico di organizzazioni assai radicate nel proprio territorio che praticano da anni forme più o meno riconosciute di terrorismo nella regione (Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah), per quanto vada comunque precisato che si tratta di un terrorismo di matrice localistica e non abbia la portata globale di quello qaedista. Non va, inoltre, trascurato come l’Iran si stia muovendo da diversi anni per sviluppare capacità nucleari. Gli esperti calcolano che nel breve volgere di pochi anni, la produzione di petrolio sarà appena sufficiente per assorbire la domanda interna e l’Iran non riuscirà più ad esportare una sola goccia di petrolio. (poiché manca il know-how necessario a trasformare il greggio in prodotti di uso comune come la benzina). Tale prospettiva dà linfa ai sostenitori del programma di arricchimento dell’uranio avviato dal Paese e su cui insiste pesantemente Ahmadinejad. Il problema esiste, è reale e la soluzione nucleare pare la scelta politica più idonea per risolvere le piaghe di un’economia in ginocchio. Tuttavia, bisogna considerare come il binomio costituito dall’ipotesi (ormai quasi una certezza, secondo molte fonti) di sviluppare tecnologia dual use, associata alle sortite dell’ex sindaco di Teheran circa il destino dello Stato di Israele, non faccia dormire sonni tranquilli a diversi Stati occidentali, per quanto tali sortite vadano cautamente inserite all’interno di un contesto fortemente propagandistico.

Considerati questi fattori, quanto conviene all’Occidente e all’America accreditare l’Iran quale partner per risolvere le questioni legate al proliferare del terrorismo? Essendo già l’Iran una potenza regionale di fatto, le manca solo la legittimazione internazionale per agire come un cane sciolto ovunque abbia interessi di egemonia o di potenza, convinta di potersi muovere molto più liberamente di quanto faccia già ora. Quanto può pesare l’apertura all’Iran sul piano dei rapporti degli Stati Uniti con Paesi arabi quali l’Arabia Saudita, la Giordania, l’Egitto e il Marocco (quest’ultimo tra l’altro ha interrotto pochi giorni fa le relazioni diplomatiche proprio con l’Iran)? Sono questi gli interrogativi che più di tutti necessitano di una risposta. Si spera che l’Occidente, a differenza del recente passato – il riferimento è in merito all’intervento in Iraq – si trovi non solo ad adottare una linea politica più realista e, quindi, lungimirante, ma agisca di concerto facendo emergere quella coesione senza la quale i problemi globali difficilmente potranno essere affrontati.

Iran, nucleare: siamo sull'orlo del precipizio

(riflessione pubblicata su http://www.come2discuss.net/ il 30 aprile 2006 - posted on April 30th, 2006, http://www.come2discuss.net/)

Sembra davvero uno scenario già visto quello che ormai da diversi mesi si impone al centro delle notizie che contano nelle relazioni internazionali: un paese nemico della democrazia che, con ambizioni di egemonia mondiale, sfida l’intera comunità internazionale degli Stati. Simili agli atteggiamenti con cui si poneva la Germania nazista di Hitler, simili alle beffe che Saddam Hussein si è fatto per anni delle Nazioni Unite, le mosse dell’Iran di Ahmadinejad sono all’origine dell’ennesima tegola che si sta abbattendo sull’area mediorientale, come se in quelle zone di problemi non ce ne fossero già abbastanza. Quello che fa paura è che, come i “predecessori” di Ahmadinejad sono riusciti, almeno in parte, a perseguire senza ostacoli i loro rispettivi progetti politico-egemonici, lo stesso Presidente dell'Iran sembra essere sulla buona strada per riuscire nel suo; un'aspirazione che si manifesta per la sua natura panislamista. Hitler, senza che alcuno muovesse un dito, ha allargato progressivamente i confini del suo impero, inglobando popoli e sterminando razze ed etnie. La politica dell’appeasement di Chamberlain e di chi, come lui, sosteneva la necessità del dialogo con un pazzo, è stata una delle concause che hanno originato la seconda guerra mondiale.
Saddham Hussein, dal canto suo, non fu da meno: l’aiuto economico delle petromonarchie arabe e degli Stati Uniti gli hanno conferito i mezzi necessari per portare a termine vittoriosamente la prima guerra del Golfo, (che vedeva contrapposto il “suo” Iraq all’Iran teocratico di Khomeini) per poi, seguendo la china scivolosa di chi quando vince per la prima volta al casinò non si accontenta più, invadere il Kuwait nel 1990, cadendo però miseramente grazie all’intervento di una coalizione capeggiata dagli stessi U.S.A.. Il problema poi è che nessuno ha rimosso Saddam (evidentemente agli Stati Uniti andava bene così) e questi ha potuto continuare indisturbato nella sua politica di eccidio, sterminando durante la sua lunga dittatura 2 milioni di persone tra cui minoranze curde e sciite. Per scalzarlo si è dovuti ricorrere, solo nel 2003, alla scusa delle armi di distruzione di massa che non sono state trovate. Lui, Saddham Hussein, è stato alla fine individuato ed arrestato ma la situazione attuale in Iraq può dirsi tutt’altro che pacificata.
Il pericolo costituito dall’Iran è rafforzato da un programma che prevede l’arricchimento dell’uranio e l’attivazione del ciclo nucleare “a scopi civili”, secondo quanto afferma da mesi il Presidente Ahmadinejad. Pregiudizievole ma, a detta di tutti gli esperti di geopolitica, fondato è il timore che Ahmadinejad voglia installare sul territorio iraniano centrali nucleari a scopo militare, non fosse altro perché tale possibilità conforterebbe molto l’opportunità di realizzare l’elemento precipuo della sua agenda: l’eliminazione fisica, la cancellazione dalla cartina geografica dello Stato di Israele.
Se a tutto ciò si aggiunge il programma già avviato che mira a preparare migliaia di kamikaze pronti a farsi saltare in aria in missioni suicide, le carte di Ahmadinejad sono scoperte. Le sue brame reali sono sotto gli occhi di tutti. Proprio ieri il rapporto stilato dal direttore generale dell’AIEA, El Baradei, fa registrare il risultato negativo delle pressioni che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha esercitato sull’Iran per convincere il suo Presidente ad abbandonare i suoi piani. La situazione, insomma, si sta ripetendo: Ahmadinejad, come Saddam, si fa beffe dell’ONU; Ahmadinejad, come Hitler all’epoca, si burla della comunità internazionale degli Stati, i quali auspicano una soluzione distensiva e pacifica degli eventi.
Notizia dell’ultim’ora è la rivelazione portata alla luce da un satellite israeliano lanciato dalla Russia che fotograferebbe la presenza di centrali nucleari sul territorio iraniano.
L’ONU sembra andare a sbattere per l’ennesima volta contro il muro poiché all’interno del Consiglio di Sicurezza ci sarebbe, sulla questione, una contrapposizione fra chi auspica una risoluzione (Russia e Stati Uniti in particolare) che congeli il progetto iraniano e chi ha già annunciato di porre il veto (Cina) sostenendo la necessità di proseguire con l’attività diplomatica. Se emergesse una tale realtà proprio in questa sede, il CdS cadrebbe vittima del sistema che da sempre imbriglia la sua attività (ragion per cui spesso ha incontrato difficoltà per muovere anche un solo dito). Se le cose dovessero prendere questa piega, ho paura che si andrà incontro all’ennesima catastrofe, con gli Stati Uniti decisi ad impedire ad ogni costo che l’Iran persegua il suo progetto e con l’Iran che per il momento agisce solo con i paraocchi. La guerra è sempre l’extrema ratio, ma ad ogni modo la possibilità di ricorrervi va tenuta lontana finché è possibile. La situazione è quanto mai realmente appesa ad un filo.

Tuesday, February 14, 2012

Presentazione - Introduction

Cari lettori,

mi chiamo Alberto Gasparetto e sono dottorando di ricerca in Scienza Politica e Relazioni Internazionali all'Università di Torino. Mi occupo prevalentemente dell'impatto della religione sulla politica estera iraniana e turca, ma la mia passione si estende a tutto quanto il Medio Oriente ed alle relazioni internazionali.
Con questo spazio web spero di contribuire alla diffusione delle conoscenze su questi argomenti, spesso trattati in modo assai superficiale sui media italiani.

Dear all,

my name is Alberto Gasparetto, Phd candidate in Political Science and International Relations at the University of Turin (Italy). I work on a research focusing on the role of religion in Iran and Turkey's foreign policies, but I am keen on the Middle East and the international politics as well.
With this web space I hope to give my contribution on those topics and to delve into the debate.

Journal article: Domestic Factions and the External Environment in Iran's Foreign Policy

My latest journal article "Domestic Factions and the External Environment in Iran's Foreign Policy" has been published in the ...