Sunday, November 18, 2018

Recensione: La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio oriente (Carocci, 2017), di Paolo A. Dossena

(Recensione a cura di Paolo A. Dossena, apparsa il 26/02/2018 nella sezione cultura di "Azione - Settimanale di informazione e cultura della cooperativa MigrosTicino" e reperibile cliccando sul seguente link: http://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/fra-i-libri-20.html?cHash...)

La «Sindrome di Sèvres», la paura dello smembramento, è uno dei fattori psicologici che garantiscono elementi di continuità tra la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e il precedente establishment kemalista.
All’indomani della Prima guerra mondiale, racconta Alberto Gasparetto, il 10 agosto 1920, l’impero ottomano firma il trattato di pace che sancisce la propria disintegrazione.
Le decisioni di Sèvres saranno superate a seguito della guerra d’indipendenza guidata da Mustafa Kemal, che lascia in eredità alle successive dirigenze turche (Erdogan incluso) la «Sindrome di Sèvres».
Nonostante gli elementi psicologici di continuità, la vittoria elettorale dello AK Parti (il partito di Erdogan) nel novembre 2002, segna nella storia turca una cesura. Il Partito popolare repubblicano (CHP) è sconfitto, l’influenza determinante dell’esercito, perno del sistema istituzionale turco dalla sua fondazione, viene limitata e lo AK Parti forma un solido governo monocolore che dura tuttora.
Tuttavia, la politica di Erdogan, che si presenta come un riformista, come la guida di un partito di tendenza islamico-moderata, non muta rispetto al precedente regime: l’ottimo rapporto con gli Stati Uniti, con la Nato (alla quale Ankara appartiene dal 1952), con Israele, l’obiettivo di aderire alla Ue e l’occidentalizzazione delle istituzioni rimangono le mete della Turchia. Gli occidentali vedono in Erdogan un partner definito come un leader a tendenza islamico-moderata, se non come un moderno liberal-conservatore.
Dunque, nonostante lo sguardo verso il mondo islamico esista (la volontà del nuovo regime turco di stringere rapporti con il Medio Oriente), concentrarsi solo su questo fattore per valutare Erdogan sarebbe riduttivo. Al punto che, nonostante l’opposizione popolare, nel 2003 la Turchia decide (non dopo i tentativi pacificatori di Erdogan) di concedere parte del proprio territorio agli Stati Uniti per l’invasione dell’Iraq. Ma quando, dopo la caduta di Baghdad, si prefigura uno smembramento dello stesso Iraq, ecco che la «sindrome di Sèvres» (vero e proprio codice genetico ed elemento di continuità psicologica della Turchia) riemerge. La frantumazione del vicino significa l’indipendenza dei curdi iracheni, fenomeno che potrebbe influenzare i curdi turchi.
La guerra dell’Iraq rappresenta allora il passaggio verso la formulazione di un nuovo orientamento di Ankara, che consiste nella rivalutazione dei vicini mediorientali.
Alla guerra in Iraq seguono tre fatti che mettono in crisi i rapporti di Erdogan con Israele: la Guerra in Libano del 2006, il bombardamento di Gaza (la guerra del 2008-2009) e i fatti della Freedom Flotilla (l’attacco israeliano contro sei navi civili, di cui una turca, in acque internazionali nel 2010).
Fallisce inoltre il tentativo di Erdogan di farsi accettare dall’Unione Europea, mentre insorgono tensioni con gli Stati Uniti (anche se il rapporto con gli americani tiene) a causa della grave crisi con Israele e del successo dell’accordo nucleare turco con l’Iran.
Questo lo stato attuale della posizione internazionale della Turchia, che rimane alla convergenza strategica di tre aree geografiche fondamentali: Europa, Caucaso, Medio Oriente.
Documentato e illuminante, questo saggio è tuttavia di taglio molto accademico.

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