(Analisi già pubblicata su ISPI - Istituto per gli Studi di politica internazionale il giorno 28/08/2018 e reperibile cliccando sul seguente link: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/crisi-della-lira-turca-nuove-equazioni-geopolitiche-medio-oriente-21152).
La crisi che in queste settimane ha colpito la lira turca, colata a picco
nei confronti del dollaro, ha natura squisitamente geopolitica. Negli scorsi
giorni, la valuta di Ankara è piombata nel tasso di cambio rispetto al
biglietto verde fino a registrare un rapporto di uno a sette. La svalutazione
della moneta nazionale si accompagna a elementi di crisi economica strutturale
di cui la Turchia è vittima almeno dall’anno scorso. Tale crisi avviene
malgrado un tasso di crescita economica che si è assestato al 7,4% nel 2017
confermando, a parte qualche annata di rara eccezione, performance analoghe da
oltre tre lustri, cioè da quando l’AK Parti di Recep Tayyip Erdogan ha vinto
per la prima volta le elezioni politiche, il 3 novembre 2002. Tuttavia, a
creare i presupposti eminentemente economico-finanziari della crisi, vi è
un’inflazione che ha toccato il 16%, rendendo vane le performance di crescita
del pil.
Da un lato, il modello economico seguito dalla Turchia ha arricchito la
classe media imprenditoriale anatolica, consentendo all’AK Parti di disporre di
un bacino elettorale di riferimento che gli ha permesso di vincere le elezioni
politiche in serie, spingendo il caso turco in direzione di un sistema a
partito predominante; dall’altro, tale modello si è fondato sull’afflusso di
ingenti investimenti dall’estero, che servivano a finanziare grandi opere e
progetti di sviluppo soprattutto nel settore delle costruzioni[1],
creando una dipendenza divenuta presto una spada di Damocle sulla testa del
Paese.
Tecnicamente, quindi, l’ingente indebitamento estero di banche e imprese
turche crea un problema di esposizione alle speculazioni sui mercati finanziari
e una conseguente necessità di disporre di una valuta nazionale forte. Per
anni, le imprese turche hanno preso in prestito dollari per beneficiare di
tassi di interesse più bassi, ma la liquidazione improvvisa ha aumentato il
costo del rifinanziamento del debito contratto[2].
Gli investitori sono spaventati anche dal deficit delle partite correnti, al 6%
del pil; una situazione che richiederebbe un ingente afflusso di capitali
stranieri[3].
Al netto della sua proverbiale retorica, Erdogan – che soffia sul rinato
nazionalismo turco a sfondo religioso, contrapponendo simbolicamente al potere
del dollaro quello di Allah e dell’orgoglio del popolo turco – è realmente
convinto che la più efficace risposta alla crisi della lira consista nella
decisione di mantenere bassi i tassi interesse, una politica avversata dalla
stessa banca centrale turca oltre che da istituzioni internazionali quali
l’FMI. Tale scelta dovrebbe servire, nelle sue intenzioni, non soltanto a
stabilizzare la valuta nazionale, ma anche ad aiutare famiglie e imprese turche
ad avere accesso al credito in maniera più agevolata[4].
Per questo motivo, le decisioni in politica interna da parte del Presidente
hanno prefigurato l’attuazione di un più serrato controllo esecutivo
sull’economia, confermato dalla nomina a ministro dell’economia e delle finanze
di Berat Albayrak, suo genero. Una scelta cui, di fatto, corrisponde la
compressione del potere di un organo indipendente quale la banca centrale turca
e che rappresenta uno dei corollari del crescente personalismo che sta
caratterizzando sempre di più la figura di Erdogan. In sintesi, si sono
profilate esattamente le circostanze che i mercati internazionali attendevano
per speculare sul crollo della valuta nazionale[5].
La goccia che ha fatto traboccare il vaso viene da oltreoceano. Un tweet
del presidente americano Donald Trump, in cui ha annunciato l’aumento delle
tariffe su alluminio e acciaio[6]
– prodotti che la Turchia importa – ha fatto precipitare in poche ore la lira
turca. Le sanzioni seguono la precedente decisione di congelare i beni dei due
ministri turchi della giustizia e dell’interno, cui Erdogan ha risposto
stabilendo una misura speculare a danno degli omologhi americani. Il casus belli è rappresentato dalla
detenzione del pastore evangelico Andrew Brunson, giudicata illegittima da
Washington. Il governo turco ritiene che Brunson sia legato alla rete di
Fetullah Gulen, il potente predicatore un tempo alleato di Erdogan, emigrato in
Pennsylvania nel 1999 e ritenuto l’architetto del fallito colpo di stato nella
notte fra il 15 e 16 luglio 2016. Ecco giunti al nodo cruciale della questione:
se l’affaire Brunson viene sfruttata
da Erdogan come (improbabile) moneta di scambio per ottenere indietro Gulen,
Trump e i “falchi” della sua amministrazione, a loro volta, lo strumentalizzano
per fare pressione sulla Turchia, in relazione al nuovo corso di politica
estera intrapreso negli ultimi anni.
Insomma, alle origini dell’attuale crisi economica e finanziaria turca vi
sono ragioni di natura squisitamente geopolitica. Agli Stati Uniti sta sempre
più stretta l’aumentata libertà di manovra che la Turchia ha acquisito da
quando l’AK Parti ha vinto per la prima volta le elezioni, il 3 novembre 2002.
Per la verità, un tale incremento della libertà di manovra è anche effetto
della ristrutturazione dei rapporti a livello internazionale in seguito alla
fine della Guerra fredda, prima, e al progressivo sganciamento degli Stati
Uniti dai destini della regione mediorientale, poi. Dopo il sostanziale
fallimento della cosiddetta “dottrina Davutoglu”, annunciata dalla crisi dei
rapporti con Israele nel 2010 e confermata l’anno successivo dallo
stravolgimento della bilancia di potenza regionale in seguito allo scoppio
delle rivolte arabe, la Turchia è riuscita a partire dal 2016 a recuperare una
funzione essenziale per gli equilibri mediorientali, grazie alle abilità
diplomatiche e alle capriole geopolitiche del suo uomo forte. Gli Stati Uniti
soffrono particolarmente l’intesa sulla Siria fra la Turchia e il nuovo asse
costituito da Russia e Iran, rispettivamente il suo arcirivale geopolitico
globale e la potenza regionale che è percepita quale principale minaccia per i
suoi due maggiori alleati in Medio oriente, Israele e Arabia Saudita. Ecco, lo
sguardo a Oriente, già preconizzato dall’ex Ministro degli esteri (e Primo ministro)
Davutoglu, fondato sull’assunzione di un ruolo più centrale per la Turchia
negli scenari geopolitici del futuro, sfruttando la privilegiata posizione
geografica a cavallo fra regioni geografiche contigue, viene oggi portato alle
estreme conseguenze da Erdogan. Il Presidente turco non è più disposto a
tollerare che il proprio Paese resti ancora a subire passivamente le dinamiche
internazionali, ma intende assurgere ad attore di livello globale. Tuttavia
Washington non digerisce che Ankara guardi ormai verso altri teatri, come
confermato dal suo Erdogan in diverse occasioni[7].
La Turchia ha in previsione l’acquisto del sistema missilistico di difesa
S-400, una tecnologia diversa da quella in dotazione della Nato che
indispettisce il suo (ex?) principale partner strategico, il quale è messo in
difficoltà in relazione alla vendita degli F-35, che il Senato americano ha
comunque congelato finché le cose non cambiano[8].
Ma un mutamento di tendenza appare, al momento, qualcosa di là da venire.
La Turchia non ha operato ancora quel chiaro e netto cambio di alleanze
strategiche che in molti le imputano[9]
ma è certamente alla ricerca di nuovi partner per fronteggiare le principali
sfide militari e in campo economico ed energetico. Abbandonare
un’organizzazione quale la NATO, con tutte le conseguenze che derivano in
termini di perdita di dividendi e interessi acquisiti nel corso di due terzi di
secolo, è, per parafrasare un’icastica formula coniata da Raymond Aron durante
la Guerra fredda, un’opzione possibile ma assai improbabile. Se il regime di
Ankara è sotto pressione, le sue mosse sono a loro volta un segnale con cui
esso tenta di comunicare a Washington che è ora di cambiare registro riguardo
alla conduzione della guerra in Siria e smetterla di foraggiare le forze
curdo-siriane dello YPG, il principale bersaglio militare dei turchi a partire
dall’operazione Scudo dell’Eufrate. D’altra parte, l’evoluzione dalla
“profondità strategica” di Davutoglu ad uno scaltro e tattico ”erdoganismo” in
politica estera ha quale sintomo più evidente l’acquisita consapevolezza da
parte turca di non voler più incaponirsi acriticamente nella salvaguardia delle
alleanze storiche, ma aprirsi alla possibilità di trovare nuovi partner e
“amici” (come li ha retoricamente tratteggiati Erdogan) che possano meglio
incontrare e soddisfare gli interessi strategici militari, economici ed
energetici di Ankara.
Quando Erdogan afferma in maniera recisa che la partnership strategica con
gli Stati Uniti è a rischio, che gli euro e i dollari sono equiparabili a
proiettili, palle da cannone e missili della “guerra economica” che gli
americani starebbero conducendo contro il suo Paese[10],
si assiste a poco più che un’infuocata retorica; la quale, emotivamente,
spaventa gli alleati ma, realisticamente, non nega la grande interdipendenza
economica che, ad esempio, lega Ankara ai paesi europei e a cui l’UE stessa è
cautamente consapevole di non volere rinunciare[11].
Molto più prosaicamente, occorre allontanarsi con l’obiettivo e guardare
all’insieme delle relazioni globali attraverso un framework più sistemico che tenga conto del carattere ormai fluido
delle relazioni di potenza a livello internazionale. E’ in tale ottica che
vanno letti non solamente i recenti propositi franco-turchi di incrementare i
legami commerciali[12], ma anche
la gestione da parte europea di una delle questioni più spinose che segnano una
profonda divaricazione fra Turchia e UE da una parte e Stati Uniti dall’altra:
le sanzioni all’Iran. Il Presidente turco intende volgere tale situazione a
proprio vantaggio e ha già approntato tutti gli strumenti per soddisfare con
successo gli interessi nazionali: approfondire, come visto, i legami
commerciali con l’Europa; cercare nuovi affidabili partner commerciali quali, in primis, la Russia, la Cina, con cui
stabilire lo scambio in valuta nazionale e non in dollari[13];
stringere ancor più i legami con un Paese che risulta sempre più strategico
nella delicata equazione degli equilibri mediorientali quale il Qatar, col cui
emiro, Tamim Bin Hamad al Thani, Erdogan ha siglato un accordo fondato su aiuti
in investimenti diretti pari a 15 miliardi di dollari[14].
In questa fase della politica internazionale, ad apparire sempre più
isolati sono gli Stati Uniti, non certo la Turchia. L’asse strategico costruito
da Washington in Medio oriente, puntellato dagli alleati Israele e Arabia
Saudita, soffre pesantemente il rinsaldato legame multidimensionale fra Russia
e Iran, nel quale si innesta tatticamente una Turchia sempre più libera di
perseguire all’occorrenza i propri interessi strategici di lungo periodo.
* Alberto Gasparetto è cultore di Scienza politica presso il
Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali
dell'Università di Padova. Ha recentemente pubblicato una monografia dal titolo
"La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente. Iran, Iraq, Israele e
Siria” (Carocci, 2017).
[1]
Paul Cochrane, ANALYSIS: Turkey’s currency and debt crisis has been years in
the making, 15 agosto 2018: https://www.middleeasteye.net/news/turkey-s-currency-and-debt-crisis-834190688.
[2] Trump Threat of Even More Sanctions Sends
Turkey’s Lira Down Again, 17 agosto 2018: https://www.haaretz.com/us-news/new-trump-threat-of-more-sanctions-sends-turkey-s-lira-down-again-1.6387691.
[3] Constantine
Courcoulas, Onur Ant, Tugce Ozsoy, Why
Can’t Turkey Stop Its Economic Nose-Dive?, 8 agosto 2018: https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-08-08/why-can-t-turkey-stop-its-economic-nose-dive-quicktake.
[4]
Borzou Daragahi, Erdogan is Failing
Economics 101, 25 maggio 2018: https://foreignpolicy.com/2018/05/25/erdogan-is-a-mad-economist-and-turkey-is-his-laboratory/.
[5]
Daniel Dombey, Why is the Turkish Lira
Tumbling?, 13 agosto 2018: https://www.ft.com/content/2d678dea-9c7b-11e8-ab77-f854c65a4465,
Ayla Jean Yackley, Turkey Warns US it
Will Seek “New Friends and Allies”, 11 agosto 2018: https://www.ft.com/content/b4e83b64-9d59-11e8-85da-eeb7a9ce36e4.
[6]
Turkish Lira in Free-Fall as Trump
Doubles Metals Tariffs, 10 agosto 2018: https://www.middleeasteye.net/news/erdogan-dismisses-plummeting-turkish-lira-saying-we-have-our-god-201906103.
[7]
Julie Hirschfeld Davis, Trump Threatens
Sanctions Against Turkey Over Detained Pastor, 26 luglio 2018: https://www.nytimes.com/2018/07/26/world/europe/turkey-sanctions-trump.html.
[8]
R. T. Erdogan, How Turkey Sees the Crisis
with the U.S,, 10 agosto 2018, https://www.nytimes.com/2018/08/10/opinion/turkey-erdogan-trump-crisis-sanctions.html;
Erdogan: Bye Bye to Those Who Prefer Terrorists, 13 agosto 2018: https://www.trtworld.com/turkey/erdogan-bye-bye-to-those-who-prefer-terrorists-19551.
[9]
Stephen A. Cook, Trump is the First
President to Get Turkey Right, 13 agosto 2018: https://foreignpolicy.com/2018/08/13/trump-is-the-first-president-to-get-turkey-right/.
[10]
Erdogan: Alliance with US at Risk, Turkey
Target of Trade War, 11 agosto 2018: https://www.aljazeera.com/news/2018/08/erdogan-alliance-risk-turkey-target-trade-war-180811183650835.html.
[11] EU Optimistic on Closer Ties With Ankara
After US-Turkey Spat, 20 agosto 2018: https://www.ft.com/content/09935e16-a230-11e8-85da-eeb7a9ce36e4.
[12]
Turkey, France Agree to Take Action
Against US Sanctions on Turkey, 18 agosto 2018: https://www.trtworld.com/turkey/turkey-france-agree-to-take-action-against-us-sanctions-on-turkey-19646.
[13] Turkey Favors Switching From
Dollars to National Currencies in Trade With Russia & China, 15 agosto 2018:
https://www.rt.com/business/436005-dollar-turkey-russia-china-trade/.
[14] Qatari Emir Vows $15 BN Turkey Investment
After Erdogan Meeting, 16 agosto 2018: https://www.aljazeera.com/news/2018/08/qatari-emir-vows-15bn-investment-turkey-erdogan-meeting-180815152545652.html.
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