Dottor Gasparetto, Lei è autore del libro La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente edito da Carocci: qual è il ruolo della Turchia nello scacchiere geopolitico mediorientale?
Se la domanda è cruciale, la complessità della risposta dipende da almeno due dimensioni fondamentali che rappresentano il filo conduttore della ricerca e dell’analisi che ho tentato di svolgere nel mio libro. Queste due dimensioni sono quella del sistema politico interno e quella del sistema esterno (regionale e internazionale).
Partendo da quest’ultimo, occorre preliminarmente ricordare che, storicamente, il Paese si era tenuto lontano dagli affari mediorientali e, specialmente durante la Guerra fredda, si era trovato a rivestire una funzione decisamente ancillare all’interno dell’alleanza militare occidentale, quale passivo avamposto adiacente al confine meridionale dell’Unione sovietica. Con la fine dell’era bipolare, al contrario, lo spazio di manovra della Turchia è notevolmente aumentato. Questo ha permesso al Paese di scoprire un mondo che prima le era stato precluso dai rigidi schemi del confronto Est-Ovest. I prodromi di questo riscatto nazionale si collocano dopo il colpo di stato dei militari del 12 settembre 1980 e il ritorno alla vita civile col varo di una nuova costituzione due anni più tardi, una fase contrassegnata dall’incoraggiamento di politiche di apertura ai mercati internazionali da parte di Turgut Ozal, il carismatico leader del Partito della Madrepatria (ANAP). L’adozione di un modello di sviluppo economico fondato sull’idea del trading state – che soppianta quello precedente fondato sulla sostituzione delle importazioni con una forte produzione industriale nazionale – permette la formazione di una vera e propria classe media borghese, desiderosa di fare affari col mondo esterno. Essa rappresenta lo “zoccolo duro” del soggetto politico che nel novembre 2002 vince le elezioni, l’Adalet ve Kalkinma Partisi (AK Parti, Partito della Giustizia e dello Sviluppo). Col partito di Erdogan al governo si assiste alla crescita progressiva del ruolo della Turchia sullo scacchiere regionale. Fortemente ispirata ai principi della “dottrina della profondità strategica”, elaborata dal principale consigliere di Erdogan in politica estera, il politologo Ahmet Davutolgu, l’azione della Turchia si manifesta per la propositività nelle principali dispute regionali tramite il ricorso alla diplomazia e al soft power: dal riavvicinamento fra Siria e Israele, al depotenziamento della questione palestinese, dalla mediazione fra Iran e occidente sulla questione nucleare, alla risoluzione dei conflitti nei Balcani, dal riavvicinamento all’Armenia alla soluzione del problema curdo alla promozione di tutti gli sforzi necessari ad una riconciliazione fra sciiti e sunniti in Iraq. Lo scopo, nemmeno troppo velato, è duplice. Da un lato, riuscire ad accreditarsi non soltanto quale partner affidabile della coalizione NATO ma anche quale esempio ben riuscito di convivenza fra Islam e democrazia – in un’epoca, quella post-11 settembre, caratterizzata dalla diffusione delle teorie neoconservatrici sull’irriducibilità della religione islamica e sulla popolarità del paradigma huntingtoniano dello scontro di civiltà; dall’altro lato, ambire finalmente ad entrare nell’Unione Europea, grazie anche ad una serie di riforme politiche interne.
A livello domestico, l’ascesa dell’AK Parti non ha fatto altro che spingere verso la crescita economica al ritmo, nel primo decennio di governo, del 7-8%, e il Paese ha beneficiato anche di una spiccata capacità di attrarre di investimenti diretti esteri. Le decisive riforme in campo politico, a partire dalla restrizione del potere d’influenza dei militari e la riforma del potere giudiziario, hanno permesso al partito di Erdogan di insediare sodali nei gangli vitali della vita politica, economica, sociale e culturale del Paese, dalla magistratura all’esercito al sistema radio-televisivo, espungendo gli elementi indigesti anche grazie ad una serie di processi giudiziari che hanno colpito i principali membri del cosiddetto “Stato profondo”, cioè un apparato del sistema ritenuto “deviato” e che avrebbe cospirato contro la fazione islamica capeggiata da Erdogan. Quest’ultimo è apparso sempre più come l’”uomo forte”, capace di risolvere le situazioni, a partire dalla ripresa economica dopo la forte crisi che ha fiaccato il Paese nel 2001, senza contare l’abile e scaltra gestione della questione curda, su cui dopo eventualmente torneremo.
L’ascesa dell’AK Parti aveva suscitato un acceso dibattito intorno a quale natura avrebbe assunto il regime turco e, di conseguenza, quale direzione avrebbe intrapreso la politica estera del Paese. In particolare, ci si interrogava a proposito delle radici religiose del partito di governo e sull’ipotesi che più fitti legami col Medio oriente e col mondo islamico potessero condurre ad una nuova postura “islamista” della Turchia negli affari esteri, allontanandola dai canoni di laicità e occidentalizzazione a cui era rimasta ancorata per quasi ottant’anni. Questa lettura risultava dall’orientamento che alla politica estera turca era stato proposto attraverso la formulazione della cosiddetta “dottrina Davutolgu”, fondata sui seguenti principi: la costruzione di buone relazioni con tutto il vicinato (zero-problems foreign policy with neighbors); l’utilizzo della “diplomazia ritmica” per emergere quale potenza regionale capace di dialogare con tutti; il perseguimento di una politica estera multidimensionale che interpreta le relazioni con i più differenti attori in maniera complementare e non competitiva (ad esempio con Russia e Unione Europea); il superamento dell’antica funzione di spettatore passivo, ovvero di potenza custode dello status quo, che subisce le dinamiche regionali invece di influenzarle, per incarnare, al contrario, il ruolo di attore proattivo in grado di rivendicare una voce in capitolo nelle questioni che contano; insomma, l’evoluzione da mero “ponte” fra civiltà a vero e proprio perno. Tuttavia, come sappiamo, e nonostante i risultati incoraggianti dei primi anni, questo costrutto normativo è annegato nelle acque del Mediterraneo in occasione dell’incidente della Mavi Marmara e della conseguente crisi dei rapporti con Israele nel 2010. La successiva esplosione delle cosiddette “Primavere arabe” nel 2011 ha definitivamente scompaginato le carte.
La rivolta in Siria, ben presto tramutatasi non soltanto in una sanguinosa guerra civile ma in una guerra per procura in cui i più importanti attori regionali hanno finora recitato una parte rilevante, aveva progressivamente relegato la Turchia all’isolamento regionale, complice il fallimento stesso della dottrina Davutoglu, l’accentuarsi della crisi nei rapporti col vecchio alleato americano e le crescenti tensioni con l’Unione Europea, non solo sul fronte del rispetto dei diritti umani nel Paese ma anche sulla questione dei migranti diretti nel Vecchio Continente. Poi, alcuni eventi hanno offerto ad Ankara l’opportunità di tornare a recitare quel ruolo che era desiderosa di incarnare all’inizio della parabola politica dell’AK Parti. In politica interna, la cattiva gestione della situazione economica aveva prodotto un esito incerto alle elezioni del giugno 2015. L’incapacità dei partiti di formare un governo, sommata ai dati sempre più negativi provenienti dall’economia reale e all’intensificarsi di attentati terroristici sia di matrice curda (PKK, acronimo che sta per “Partito dei Lavoratori del Kurdistan”) che jihadista (Stato islamico) hanno finito per avvantaggiare nuovamente Erdogan, l’unico capace di coagulare il consenso attorno a sé. Nella tornata elettorale convocata per il mese di novembre, l’AK Parti è riuscito a recuperare i consensi perduti ed è tornato a formare un governo monocolore con quasi il 50% dei suffragi in proprio favore. Forte di questo risultato e, dopo essere divenuto Presidente della Repubblica, Erdogan ha cominciato ad ingerirsi sempre più in questioni prettamente politiche, dominando i congressi di partito (benché formalmente vietato dalla Costituzione), esercitando un ruolo preponderante nella determinazione delle linee guida in politica interna e anche in politica estera. Il culmine è avvenuto con la rimozione, nel maggio 2016, di Ahmet Davutoglu, che nel frattempo era divenuto Primo Ministro, e la sostituzione con una figura che garantisse a Erdogan maggiore fedeltà, l’attuale Premier Binali Yildirim. L’interruzione dei negoziati di pace col PKK nel giugno 2015 e la definitiva messa in soffitta della cosiddetta “apertura curda”, avviata nel 2009 e tesa a riconoscere alla minoranza etnica maggiori diritti, ha portato ad una ripresa delle operazioni militari al confine con la Siria, dove il PKK trova sponda nelle milizie dello YPG (Unità di Protezione del Popolo), legate al PYD (Partito dell’Unione Democratica, cioè la formazione partitica dei curdi siriani).
La politica estera turca oggi pare più che mai guidata da un forte nazionalismo combinato con la ricerca quasi disperata dell’interesse nazionale. Per la verità, questo principio si caratterizza piuttosto per la continuità con uno dei fattori psicologici che storicamente hanno orientato il processo decisionale turco e la stessa auto-percezione del Paese sulla scena regionale ed internazionale. Si tratta, nientemeno, che della Sindrome di Sèvres, dal nome del trattato di pace firmato nel 1920 a conclusione del primo conflitto mondiale e che ha, di fatto, mutilato i territori dell’ex Impero Ottomano. riducendoli alla sola penisola anatolica. L’interesse nazionale oggi consiste nel perseguire una crescita economica, spinta anche da sempre più fitte relazioni commerciali-energetiche con la Russia, con l’Iran, col KRG (Governo Regionale del Kurdistan iracheno), in grado di convertirsi in crescita dell’influenza politica nella regione: un motivo di orgoglio per il popolo turco e di consenso politico interno per Erdogan. Un Paese slegato dal giogo opprimente dell’alleanza occidentale tipico della Guerra fredda significa per i cittadini vedere finalmente il proprio Paese avere voce in capitolo nelle questioni che contano; significa poter affrontare Israele da pari a pari, financo a pervenire alla rottura delle relazioni in seguito alla crisi della Mavi Marmara nel 2010; significa poter coccolare quel sentimento nazionale alimentato dal popolo turco rispetto alla questione curda, cioè nel rapporto con i cosiddetti “turchi delle montagne” (un epiteto denigratorio che descrive i curdi togliendo loro qualsiasi caratterizzazione etnica peculiare). Già nel 2010, lo studioso Omer Taspinar parlava, al proposito, di “gollismo turco”, a significare che la disputa fra laici e islamisti, invero, poteva trovare un’adeguata composizione nell’esibizione di un atteggiamento profondamente nazionalista, caratterizzato da una frustrazione nei confronti di antichi alleati quali Stati Uniti, Unione Europea e Israele. La crisi con Israele, ad esempio, più che costituire una svolta in senso “islamista” rappresenta la conferma di un ritrovato spirito nazionalista. Tutto ciò si traduce oggi in un redivivo protagonismo del Paese sulla scena regionale, che da molti è interpretato come “neo-ottomanesimo”. Un protagonismo che si incarna nelle ambizioni del suo Presidente, seguendo una evoluzione dalla dottrina Davutoglu, fondata sulla profondità strategica, a un vero e proprio “erdoganismo” su tutti i fronti. Una politica estera caratterizzata sempre più da una visione eurasiatica che guarda fortemente ai legami con la Russia e con la Cina, senza più necessariamente incaponirsi in un tentativo di adesione all’Unione europea, finora mai coronato da successo.
Qual è stato il ruolo della Turchia nella crisi siriana?
Nei primi sei mesi dopo lo scoppio della rivolta, i decisori turchi avevano adottato un atteggiamento di estrema prudenza nei confronti del movimento popolare che si era sollevato contro Bashar al-Assad. Anzi, la linea ufficiale era quella di incoraggiare il leader del regime siriano a venire incontro alle richieste dal basso e approvare le necessarie riforme. In quella fase ebbero un ruolo cruciale i buoni rapporti politico-diplomatici che i due Paesi avevano saputo costruire fin dalla firma, nel 1998, degli storici Accordi di Adana, che stabilivano la cessazione di ogni ulteriore sostegno da parte siriana al PKK e che permisero in seguito la cattura del suo leader, Abdullah Ocalan. L’eventuale scoppio di una guerra civile avrebbe verosimilmente potuto creare disordini al confine, non soltanto producendo un probabile esodo di cittadini siriani, ma anche alimentando la volontà indipendentista dei gruppi curdi insediati a cavallo fra i due Paesi. Effettivamente, questi timori si sono ben presto concretizzati e la Turchia ha dovuto attrezzarsi non soltanto per organizzare la resistenza siriana al regime, riunita, fra gli altri gruppi, all’interno dell’Esercito Libero Siriano, ma anche per combattere successivamente in modo deciso i gruppi indipendentisti curdi.
Rispetto alla fondazione del califfato islamico sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi fra giugno e luglio 2014, la Turchia si è mostrata ambigua per parecchio tempo. Invece di convogliare fin da subito i propri sforzi per contrastarne l’espansione territoriale, ne ha favorito le fortune militari, agendo in modo passivo per trarne vantaggio in funzione della propria strategia di contrasto all’indipendentismo curdo. Soltanto con il lancio dell’Operazione “Scudo dell’Eufrate”, il 24 agosto 2016, Ankara è entrata ufficialmente in guerra contro l’ISIS. Eppure, oggi che lo Stato islamico risulta notevolmente ridotto nella sua dimensione geografica oltreché debilitato nelle sue capacità militari, la Turchia avverte vieppiù la minaccia dei due gruppi YPG e PKK. Questi ultimi, infatti, hanno beneficiato dell’invio di armi e del sostegno finanziario da parte statunitense, benché Washington, cioè il suo storico partner strategico, li consideri ufficialmente gruppi terroristi. E così, la Turchia si trova a vivere una frustrazione psicologica di proporzioni enormi, data dalla circostanza paradossale che l’approvvigionamento militare di cui hanno goduto lo YPG e il PKK per contrastare efficacemente lo Stato islamico può essere oggi rivolto proprio contro Ankara. Non c’è molto da stupirsi, pertanto, se Erdogan cerca “protezione” fuori dallo storico ombrello NATO, dialogando più con Mosca che con Washington sulla situazione siriana e addirittura concludendo un accordo di fornitura di un sistema di difesa missilistico avanzato (S-400) proprio con Putin.
Quali rapporti legano la Turchia ai principali attori della politica mediorientale?
Sebbene si tratti di una grande potenza esterna, la Russia non può non essere considerata parte delle dinamiche regionali. Si tratta infatti di un Paese che oggi più che mai appare come l’ago della bilancia dei rapporti che si strutturano sullo scacchiere mediorientale. La soluzione della crisi dei rapporti con la Russia nell’estate 2016, con la lettera ufficiale di scuse inviata al Presidente russo Vladimir Putin, dopo l’atterramento di un caccia russo che stava sorvolando i cieli siriani nel novembre 2015, ha permesso a Erdogan di lanciare l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, volta a respingere le milizie curde al di là della sponda ovest del fiume mesopotamico, ma anche a far indietreggiare gli adepti dello Stato islamico, come contropartita da offrire a Mosca. I rapporti bilaterali sono oggi molto più distesi e le relazioni economico-energetico-commerciali sono riprese. A testimonianza di ciò, i frequenti incontri fra Erdogan e Putin inseriti nella cornice dei negoziati sulla Siria, cui ha preso parte anche l’Iran a partire dal primo incontro ad Astana in Kazakistan nel gennaio 2017. I tre Paesi hanno letteralmente dato forma ad una sorta di triangolo tattico al cui vertice si posiziona proprio Mosca, a far da guardiano sulla situazione in Siria e senza il cui nulla osta gli altri attori regionali difficilmente si muovono. Sintomo evidente di una tale strutturazione del potere attorno alla Russia nella regione, cui corrisponde ormai da anni un evidente arretramento da parte statunitense, è l’atteggiamento di estrema e calcolata prudenza che l’Arabia Saudita e Israele adottano nei confronti dell’Iran.
Rispetto all’Iran, i rapporti sono distesi. Lo storico modello di relazioni bilaterali fra Ankara e Tehran è riproposto fedelmente ancor oggi, fondandosi sulla cooperazione nel settore economico ed energetico e sulla rivalità che permane sul piano dei rapporti geopolitici, avendo i due Paesi sinora perseguito obiettivi differenti nella guerra in Siria. Per quanto riguarda il primo punto, la cooperazione economica è tuttavia risultata fiaccata prima dalle sanzioni americane dirette al programma nucleare iraniano e poi dal mancato decollo delle relazioni commerciali che ci si attendeva dalla firma del JCPOA (acronimo inglese che sta per Piano di Azione Congiunto Globale) nel luglio 2015 e dalla rimozione dei dazi nell’interscambio commerciale su oltre 250 prodotti. Sul piano geopolitico, invece, le divergenze originano dal fatto mentre la Turchia è sempre stata ossessionata dal problema curdo, l’Iran ha perseguito la costruzione di una “mezzaluna sciita” che, collegando direttamente Tehran a Beirut, passando per Baghdad e Damasco, agisse da deterrente contro il potere militare israeliano e controbilanciasse le potenze sunnite rappresentate dall’Arabia Saudita e dalla minaccia dello Stato islamico.
Riguardo ai rapporti con l’Arabia Saudita, a discapito della comune radice sunnita, non vi sono particolari strategie, ma sembra che la Turchia resti a guardare l’evolversi della situazione soprattutto in relazione alla rivalità fra Ryiad e Tehran. Rispetto allo Stato di Israele, i rapporti sono parzialmente recuperati dopo la crisi della Mavi Marmara del maggio 2010 ma, anche qui, la mia sensazione è che la Turchia preferisca stare a guardare l’evolversi della situazione fra Tel Aviv e Tehran per continuare a concentrarsi sul suo nemico numero uno, i curdi.
Quale futuro, a Suo avviso, per la Turchia?
Per quanto riguarda il versante internazionale, la Turchia vive oggi più che mai una crisi di identità all’interno della NATO. La sua permanenza all’interno dell’alleanza occidentale non è ancora in discussione ma è evidente che Ankara difficilmente rinuncerà a far valere i propri interessi nell’ipotesi che questi ultimi cozzino con quelli degli Stati Uniti, ma tenterà di approfittarne per valutare se altri attori come la Russia saranno più propensi ad accordare la realizzazione dei suoi obiettivi strategici. Nei rapporti con l’Unione europea, poi, la luna di miele non è mai stata celebrata, mentre la situazione post-golpe fallito non sembra aver partorito le condizioni ideali per far ripartire i negoziati di adesione.
Per quanto riguarda il versante interno, la Turchia, dopo il ritorno alla vita civile nel 1983, ha conosciuto una fase di progressiva crescita economica, di emersione di una classe media borghese, di un sempre più accentuato pluralismo politico e sociale e di un’opinione pubblica matura. Insomma, la Turchia ha esperito negli ultimi tre decenni una certa vivacità democratica, grazie anche alle riforme nel campo dei rapporti fra politica e militari, incoraggiate dal vincolo esterno rappresentato dall’Unione europea. Tuttavia, negli ultimi anni, la volontà di potere di Erdogan sta demolendo sempre più quel pluralismo necessario a definire quella turca una democrazia di qualità. L’incarcerazione di decine di giornalisti, già prima del luglio 2016, era un chiaro indicatore di affanno della qualità democratica. La proclamazione dello stato d’emergenza dopo il fallito colpo di stato, la destituzione dai pubblici uffici e l’incarcerazione di decine di migliaia di membri delle forze dell’ordine, magistrati, docenti delle scuole e delle università, giornalisti, spesso anche con criteri molto discrezionali, hanno quindi inferto un duro colpo alla democrazia. Senza contare che resta aperta la ferita dell’arresto del processo di pace coi curdi. La riforma costituzionale approvata con il referendum confermativo nell’aprile 2017 ha infine alterato sensibilmente i rapporti fra i poteri dello stato, spingendo sempre più il Paese verso una forma di democrazia illiberale o addirittura di semi-autoritarismo. Erdogan appare sempre più il dominus della politica turca. L’esito delle dinamiche politiche dipenderà molto dal consenso che lui e il suo partito saranno in grado di mietere in occasione dei prossimi appuntamenti elettorali, ufficialmente previsti per il 2019. Se lui e l’AK Parti saranno in grado di imporsi, è lecito attendersi prima o poi un ritorno a quell’autoritarismo che il popolo turco ha già conosciuto in passato, ai tempi di Mustafa Kemal Ataturk, ma con una più accentuata visibilità pubblica del ruolo della religione (senza, per ciò stesso, divenire un Paese fondamentalista) combinata, a sua volta, con un allontanamento progressivo anche dalle organizzazioni internazionali occidentali che avevano agito da pietra angolare dell’attaccamento turco ai valori della laicità.
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