Hassan Rowhani è il nuovo Presidente della Repubblica Islamica d’Iran.
Alla fine il chierico, membro dell’assemblea degli Esperti, che all’inizio
della settimana ha beneficiato del ritiro del moderato Mohammed Reza-Aref
ottenendo l’endorsement da parte di Rafsanjani
e di Khatami, ha vinto la concorrenza dei candidati conservatori graditi a
Khamenei. Non è stato, pertanto, necessario, disputare un secondo turno, come
invece i sondaggi degli ultimi giorni avevano largamente pronosticato. Rowhani
ha ottenuto il 50,71% dei voti, mentre l’affluenza si è assestata al 72,7%.
Nell’elezione di Rowhani,
molti analisti vedono aprirsi l’opportunità per l’Occidente di arrivare ad un
compromesso sulla spinosa questione nucleare che da diversi anni condiziona le
relazioni con l’Iran ed è il principale motivo della politica delle sanzioni
economiche. Il neo-eletto Presidente è già noto alla comunità internazionale per aver condotto i
negoziati sul nucleare tra il 2003 ed il 2005, giungendo addirittura ad un
accordo che prevedeva la sospensione del programma per consentire le ispezioni
da parte dell’AIEA[1].
Le speranze che la sua elezione infonde sono date dalle stesse posizioni
da lui espresse in merito al possibile engagement
con l’Occidente proprio sulla questione nucleare. Rowhani si è detto ottimista circa
la possibilità che un clima di fiducia possa e debba essere instaurato, al fine
di superare le tensioni dovute a otto anni di politica aggressiva. I
riferimenti e la presa di distanze dal suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad
emergono anche riguardo alla situazione economica e alle misure da
intraprendere per alleviare le sofferenze a cui molti iraniani si trovano
costretti da diversi anni. Uso della diplomazia in politica estera e rilancio
dell’economia sono questioni evidentemente legate a doppio filo nel Paese dei
pistacchi.
Anche se è assai probabile che si assista ad un ammorbidimento dei
toni in politica estera da parte del nuovo Presidente – e, presumibilmente,
anche da parte della sua futura compagine governativa – la cautela in questa
fase è d’obbligo. Da un lato, è verosimile ritenere che la visione negativa che l’Occidente
ha dei governanti iraniani venga rimpiazzata da un’immagine positiva legata
alla composizione ed alla natura del nuovo Governo. Durante la campagna
elettorale, Rowhani aveva dichiarato che, in caso di vittoria, avrebbe impresso
una svolta alla questione del rispetto dei diritti umani in Iran, favorendo una
maggiore apertura politica e ponendo fine alla detenzione di molti oppositori politici
finiti in carcere durante la presidenza Ahmadinejad[2].
Posizioni simili si trovano in forte discontinuità con la precedente linea
politica, inaspritasi soprattutto dopo le contestate elezioni del 2009.
Dall'altro lato, nel proporre un approccio di politica estera non più basato sullo
scontro, ma sull’alleggerimento delle tensioni e su un’intesa, Rowhani potrebbe
influire positivamente sulle convinzioni di Khamenei circa la necessità di
raggiungere un compromesso. La Guida suprema potrebbe convincersi che per il
bene del Paese sia opportuno lavorare col gruppo del 5+1 (i membri del CdS col
potere di veto più la Germania) in modo in più incisivo di quanto fatto negli
ultimi da Ahmadinejad e dal suo Ministro degli Esteri Ali Akbar Salehi e
cercare più seriamente un accordo.
E’ bene sottolineare, tuttavia, alcuni elementi importanti. In primo
luogo, le buone intenzioni non sono sufficienti a superare le tensioni di anni
di retorica incendiaria e di aspra contrapposizione. Inoltre, lo stesso Rowhani
ha escluso che la disponibilità a dialogare con l’Occidente, resa necessaria
dalla difficile situazione economica, porti a scarificare gli interesse
nazionali[3].
La questione nucleare in Iran è vissuta quasi unanimemente come un motivo di
orgoglio nazionale, oltre che ragione necessaria a rilanciare lo sviluppo
economico del Paese, emancipandosi dalla dipendenza dal petrolio. La posizione
di Hassan Rowhani sul tema, chiaramente, non fa eccezione. La volontà di
proseguire con il programma risulta pertanto irriducibile.
In terzo luogo, nell’equazione che vede nel cambio al vertice della Presidenza
un necessario scongelamento dei rapporti con l'Occidente vanno inserite almeno un paio di
variabili internazionali : a) le resistenze che sulla questione nucleare
vengono opposte da alcuni governi occidentali oltre che da potenti lobby filo-israeliane in seno al
Congresso USA; b) il fattore siriano e la crescente competizione con la Turchia.
Sul fronte interno, resta inoltre il fatto che il sistema
istituzionale della Repubblica Islamica è concepito in maniera tale per cui il potere
decisionale si trova in ultima istanza nelle mani degli organi a legittimità
religiosa. Khamenei, con i suoi uomini in seno al Consiglio Supremo di
Sicurezza nazionale (SNSC), finirà comunque per condizionare le scelte in
politica estera, ammesso e non concesso che le intenzioni di Rowhani siano
davvero sincere. Infatti, nelle parole del nuovo Presidente emerge ancora la
classica dicotomia islamista, dominante nel clero conservatore, fra l’Iran e i
suoi nemici[4].
Riguardo poi al paragone col suo predecessore, ed alla discontinuità fra i due su cui si soffermano gli analisti, non si può dimenticare che Ahmadinejad non
è solo quell’ultraconservatore che ha fatto ricorso ad una retorica aggressiva contro
lo Stato di Israele. E’ anche quel politico che, incalzato dagli organismi economici
internazionali, ha abolito i sussidi ad alcuni beni essenziali quali la benzina,
al fine di alleviare l’economia iraniana dallo stato di sofferenza in cui
versava (anche se poi a farne le spese sono stati gli stessi cittadini iraniani).
Da ultimo, ma non per questo meno importante, Ahmadinejad e Salehi sono i
principali artefici, dopo anni di stallo, della riattivazione delle
negoziazioni sul nucleare con l’AIEA e col 5+1 – anche se probabilmente sono
intervenuti interessi legati ai giochi politici domestici. Checché ne dicano i
suoi detrattori, il pragmatismo, anche se a fini di potere interni alla Repubblica
islamica, è stato un evidente tratto della politica estera del secondo mandato
di Ahmadinejad.
Infine, il fatto stesso che, a pochi giorni dal voto, Rowhani abbia
ricevuto l’appoggio, a danno del laico e più convinto riformista Reza Aref, sia
da parte di Rafsanjiani che da parte di Khatami – due figure imponenti nel panorama
politico iraniano e pur sempre due chierici col turbante in testa – lascia
ipotizzare che la sua candidatura non sia tanto da interpretare come la migliore
opzione sotto il profilo del consolidamento delle idee riformiste e della
coalizione moderata, quanto più come l’esito meno dannoso nella ricerca di un compromesso per gli equilibri futuri fra le opposte fazioni che si contendono il potere nella
Repubblica Islamica.
In questo delicato passaggio, infatti, Rowhani rappresenta forse il
miglior anello di congiunzione fra la fazione riformista che lo sostiene e
quella conservatrice. Eppure, solamente l’analisi dell’operato del nuovo
Presidente e un contemporaneo bilancio dei risultati ottenuti nel medio-lungo
periodo dal suo Governo ci diranno se l’ottimismo che già aleggia nelle
cancellerie occidentali troverà conferma nei fatti oppure se le difficoltà sul versante
internazionale rimarranno tali mentre i giochi di potere interni alla
Repubblica degli Ayatollah avranno avuto ancora una volta la meglio.
Alberto Gasparetto
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