Wednesday, July 20, 2016

Analisi: Incognite e pericoli sul futuro della Turchia di Erdogan


(Commento già apparso sul sito dell'OPI - Osservatorio di Politica Internazionale e disponibile al seguente link: http://www.bloglobal.net/2016/07/incognite-e-pericoli-sul-futuro-della-turchia-di-erdogan.html) 
Sono numerosi gli interrogativi che in queste ore, a distanza di ormai cinque giorni dal fallito colpo di Stato in Turchia, si stanno ponendo i rappresentanti delle cancellerie occidentali. Che sorte verrà riservata ai congiurati, magistrati e agli appartenenti alle forze armate e di polizia (un numero che al momento in cui si scrive ha oltrepassato le diecimila unità)? Saranno sottoposti alle procedure previste dal giusto processo, oppure le immagini che ritraggono soldati denudati, con mani legate, stipati all’interno di palestre debbono forse indurci a pensare, come ha scritto Dacia Maraini ieri mattina sul Corriere della Sera[1], che la giustizia potrebbe essere facilmente sostituita dalla vendetta?

Che fine faranno tanti intellettuali, docenti universitari e giornalisti non allineati con le posizioni del «regime»? Che ne sarà della democrazia parlamentare, della dialettica politica che vede presenti in Parlamento altri tre partiti, il laico e repubblicano CHP (erede dei valori di Ataturk), il nazionalista MHP e il partito filo-curdo HDP? Cosa accadrà se, com’è presumibile, visti i numeri, il Parlamento dovesse approvare la reintroduzione della pena di morte? Come verrà trattata la minoranza curda, tenuto conto che il Presidente Recep Tayyip Erdogan ha messo la parola «fine» da ormai un anno al processo di pace col PKK, rivolgendo prevalentemente contro i curdi le operazioni belliche nel magmatico teatro di guerra siriano? Quali alleanze internazionali scaturiranno proprio a partire dallo scenario siriano, considerato il riavvicinamento a Israele e, soprattutto, alla Russia di Putin e visto l’inasprimento delle relazioni già tese con Washington in merito alla protezione che il governo americano offre a Fetullah Gulen, il predicatore un tempo sodale di Erdogan ed oggi indicato come l’architetto del tentato colpo di Stato[2] e prontamente paragonato a Bin Laden dallo stesso Presidente?
Domande relativamente retoriche alcune, altre effettivamente più complicate da affrontare a soli quattro giorni di distanza. Tuttavia, si può partire da un dato piuttosto certo. E cioè che molti, fin troppi, elementi sembrano ormai confermare quello che era già abbastanza chiaro fin dalla prima ora: che l’organizzazione del golpe sia stata non soltanto improvvisata e superficiale, ma genuina e realmente progettata. Cade, pertanto la tesi del complotto[3].
Negli stessi istanti in cui un gruppo di militari appartenenti alla fazione golpista, una volta occupati gli studi della tv nazionale per lanciare il proclama dell’avvenuto colpo di Stato, dichiarano di avere preso possesso delle principali istituzioni del Paese e di presidiare tutti gli aeroporti, comincia a circolare la notizia che Erdogan – che si trovava in vacanza nella località di Marmaris, a sud-ovest del Paese, sulla costa mediterranea – si stia dirigendo prima in Germania, poi in Inghilterra, quindi in Qatar. Non importa che questi rumors si rivelino ben presto infondati e che Erdogan sia in realtà diretto prima ad Ankara e successivamente a Istanbul – ove, all’aeroporto Ataturk, lo attende un capannello di sostenitori – l’elemento fondamentale è che lui, il Presidente della Repubblica, cioè la principale figura che i golpisti avrebbero dovuto neutralizzare, riesce in qualche maniera a spostarsi dal luogo in cui si trovava senza poter essere intercettato. Fin qui, la tesi complottista può ancora stare in piedi, sebbene l’elemento della grossolanità con cui è stato organizzato il golpe salta già all’occhio anche dell’osservatore più sprovveduto. In serata, il capo di stato maggiore della difesa, Generale Hulusi Akar, viene catturato da altri generali e, minacciato con una pistola puntata al volto, gli viene intimato di leggere il loro proclama alla nazione turca. In cambio, secondo la testimonianza da egli resa, prima il Generale Mehmet Disli e in seguito il Generale Mehmet Partigoc gli avrebbero promesso che avrebbe «visto grandi cose» in seguito al golpe[4] (magari alludendo ad ipotesi che non prevedevano la sua eliminazione, ma anzi un suo coinvolgimento ex-post). Ma il Generale si rifiuta decisamente di firmare qualsivoglia dichiarazione e di prendere così parte al golpe. La diffusione della notizia ben presto convince molti, fra cittadini turchi ed osservatori esterni, che le forze armate siano di fatto spaccate al loro interno – elemento, peraltro in controtendenza con i precedenti colpi di stato che la Turchia ha conosciuto negli ultimi quarant’anni del secolo scorso.
Nella confusa sovrapposizione delle notizie, molte delle quali da accertare, emerge che il Generale dell’Aviazione turca Akin Ozturk, additato fin dall’inizio dal regime di Erdogan quale probabile vertice operativo del golpe, abbia inizialmente confessato il suo ruolo, nonostante in seguito sia giunta la smentita a tale notizia. Ozturk avrebbe infatti negato ogni ruolo, addossando la colpa a Fetullah Gulen, dalla cui struttura di potere dichiara di aver preso le distanze da tempo[5]. Assieme a lui, fra le figure di spicco del potere militare, vengono arrestati il generale a capo della base militare di Incirlik, Bekir Ercan Van, e i due generali a capo della seconda e terza armata, Erdal Ozturk e Adem Huduti. Anche se colpisce la rapidità con cui vengono individuati i presunti responsabili del tentato golpe e, di seguito, le migliaia di militari e di magistrati, in realtà pare che tutte queste figure fossero già da tempo sotto osservazione e fossero in qualche modo risultati appartenenti alla struttura messa in piedi da Fetullah Gulen. I servizi di intelligence sarebbero addirittura venuti preventivamente a conoscenza del golpe, grazie alle informazioni ottenute tramite l’intercettazione di comunicazioni telefoniche fra i congiurati; i medesimi, che si sarebbero dovuti mobilitare solo all’alba del mattino seguente, sabato 16 luglio, sarebbero stati incalzati dal precipitare degli eventi e avrebbero agito in anticipo rispetto al piano concordato clandestinamente. Tutto ciò avrebbe portato al fallimento dello stesso. Come ci spiegheremmo, altrimenti, l’anticipo di appena 20 minuti con cui Erdogan riesce a sfuggire all’arrivo delle forze armate golpiste nell’hotel in cui si trovava la sera del 15 luglio – situazione in seguito alla quale, peraltro, due suoi consiglieri perdono la vita in uno scontro a fuoco[6]? Certo, l’ingente numero di indagati può far supporre che si sia trattato di un piano orchestrato a tavolino dallo stesso Erdogan; nessuno, inoltre, può essere realmente a conoscenza dei criteri con cui il regime ha proceduto a catalogare così tante persone, associandole alla struttura di potere fabbricata da Gulen. E’ plausibile supporre che Erdogan e i suoi uomini possano approfittare di una situazione di marasma totale per fare la massima pulizia possibile e sfruttarla anche per secondi fini. Ad esempio, al momento, chi può dirci con certezza che l’incriminazione, arrivata solo adesso, dei due piloti che abbatterono il jet russo nel novembre 2015[7], non venga sfruttata per addossare la colpa a due pedine sacrificabili sull’altare di nuove alleanze internazionali, a vantaggio della de-responsabilizzare di Erdogan di fronte a Putin? Chi ci assicura che Erdogan non stia già pensando, o non abbia già pensato da alcune settimane, che un riavvicinamento a Mosca in seguito a scuse ufficiali non serva ad un ipotetico trade-off fra l’accettazione turca del regime di Assad in cambio della promessa russa di non avallare la fondazione di uno stato curdo? Solo gli sviluppi della guerra in Siria e l’esame fattuale del riavvicinamento con Mosca potranno dircelo.
La realtà è che in Turchia numerosi militari, magistrati, giornalisti e intellettuali si suppone facciano capo a Gulen e da tempo siano stati perciò messi sotto controllo. Erdogan stava già provvedendo ad epurare di fatto tutti coloro che all’interno della struttura di potere del regime turco non lo aggradavano più. E’ in questo modo che ci si spiega la rimozione del Premier Ahmet Davutoglu, sostituito verso la fine del mese di maggio da Binali Yildirim, fedelissimo del Presidente. Ed è solo così che ci si può spiegare il commissariamento, nel marzo di quest’anno, di un quotidiano influente come Zaman, legato a Fetullah Gulen. Ancor prima di entrare in conflitto con quest’ultimo, Erdogan, in seguito all’istituzione dei processi Ergenekon e Sledgehammer, aveva provveduto negli anni addietro a rimuovere dalle posizioni chiave molti esponenti della fazione repubblicana che custodivano gelosamente i valori di Ataturk[8]. Anche grazie a modifiche costituzionali come quella avvenuta tramite il referendum del 12 settembre 2010, il Presidente ha ridotto i poteri dei militari e ridisegnato le nomine della Corte costituzionale, in modo tale da garantirsi che le leggi approvate in un Parlamento a maggioranza AKP non venissero bocciate dai «guardiani della Costituzione»[9]; insomma, Erdogan ha da tempo provveduto a costruire un regime a propria immagine e somiglianza, nominando suoi sodali nei centri nevralgici del potere economico, giudiziario, militare, educativo e della comunicazione[10]. Parallelamente, ha provveduto a rilanciare la crescita economica del Paese che ha visto un boom nel reddito pro-capite e nelle stesse performance a livello di prodotto nazionale lordo. Ha così contribuito a dar voce e rappresentanza ad un folto gruppo sociale andato sotto il nome di borghesia anatolica, estendendo il proprio consenso trasversalmente a piccoli imprenditori, commercianti, insegnanti, operai, facendo diventare il suo partito, l’AK Parti un classico partito pigliatutti. Aveva persino tentato ed in parte era riuscito, per un breve tratto della recente storia politica turca, a catturare sotto la bandiera dell’AK Parti parte del popolo curdo, in base ad una politica che permetteva al cittadino curdo di integrarsi nel sistema turco in virtù della professione di fede islamica. E’ solo così, assecondando i desideri e le pulsioni del popolo turco, anche di quello più conservatore e portatore di una spiccata sensibilità per un ruolo pubblico della religione, che è riuscito ad attrarre sempre più consensi nelle varie tornate elettorali dal 2002 in poi, fino a convincere un turco su due alle elezioni politiche di appena otto mesi fa, nel novembre 2015.
Il fallimento del colpo di stato militare è frutto di tutto ciò. Spaccatura all’interno delle forze armate stesse (che forse in pochi potevano attendersi divise fino a questo punto: sarebbe stata necessaria un’analisi sociologica talmente penetrante da essere problematica anche rispetto agli esiti, oltre che alla sua realizzazione), impreparazione e improvvisazione dei militari scesi in strada (si vocifera che fosse stato detto loro che si trattava di un’esercitazione: anche così si spiega come mai non abbiano realizzato una strage[11]) e grosso consenso del popolo che, una volta comprese le difficoltà dei militari stessi e una volta ascoltato il messaggio di Erdogan via FaceTime, che le televisioni private stavano trasmettendo, si sono riversate in strada ad Ankara e a Istanbul, sfidando i carri armati dei militari golpisti, ottenendone la resa[12].
Il futuro del Parlamento e della dialettica politica rappresentano un’altra incognita. Nonostante vi sia stata una riunione straordinaria subito dopo il fallito colpo di stato, in cui tutti i partiti (dal CHP al MHP all’HDP) hanno espresso condanna unanime contro l’azione da parte della fazione militare golpista[13], si fa fatica a prevedere un futuro roseo in cui il pluralismo politico verrà pienamente garantito. Persino la condanna del golpe da parte di Ahmet Davutoglu, ormai marginalizzato dal partito di governo dopo la sostituzione al vertice dell’esecutivo e la sua presenza al fianco degli ex colleghi durante i funerali dei militari «lealisti» deceduti sembrano più mosse di rito, quasi obbligate. Ciò che crea incertezza è, per usare un gioco di parole, l’incertezza stessa che sembra regnare fra le forze di opposizione. Come si comporteranno quando in Parlamento verrà presentata la mozione per reintrodurre la pena di morte? Che misure adotterà nei loro confronti un Erdogan rafforzato ogni qual volta essi adotteranno posizioni ritenuti inconciliabili con la salvezza del regime stesso?
Eppure, per concludere, sebbene il futuro della Turchia non si annunci roseo, con un Erdogan che, dopo aver represso la dissidenza ed epurato tutti gli elementi indigesti dalla conduzione degli affari pubblici del Paese, imprimerà con forza una svolta presidenzialista (autoritaria, realizzando una sorta di «paradosso della democrazia»?) al regime che ormai controlla con molti pesi e pochi contrappesi, questo è forse l’esito migliore che ci si potesse augurare, garantendo, sulla carta, una maggiore stabilità al Paese, che consente ai Paesi occidentali di confrontarsi più direttamente con le problematiche turche. O, quanto meno, il meno peggio. Se in Turchia verrà reintrodotta la pena di morte, dall’Unione Europea hanno già fatto sapere che il processo di adesione subirà una battuta d’arresto inoppugnabile. Se non verrà introdotta, ma i limiti imposti al dissenso politico continueranno a sussistere, il dialogo con l’Unione Europea potrebbe protrarsi all’infinito col rischio di incagliarsi sulle solite questioni simboliche quali l'incedere dell'Islam politico sulla scena pubblica o il genocidio degli armeni. Ciò che dovrebbe maggiormente premere alle cancellerie occidentali – è a loro, non solo ad Erdogan, che passa la palla – sono questioni quali i diritti delle minoranze politiche ed etniche, la previsione di uno stato di diritto pienamente liberale fatto di pesi e contrappesi, con un esercito controllato dal potere politico (ponendo quindi fine ad un’antica disputa con l’Europa circa il ruolo dei militari, prima dell’avvento dell’Islam politico), con una magistratura e dei media indipendenti, con un’opinione pubblica formata ed informata ed un’opposizione attiva e responsabile. La posta in gioco è alta e gli esiti non sono così scontati se, con un po’ di coraggio ed una buona dose di realismo politico, si prendono in mano la questione della guerra in Siria, lo status dei curdi, la questione dei migranti, scioccamente accantonata. Erdogan è un interlocutore necessario nella regione, sia dal punto di vista politico-militare, sia sotto il profilo delle relazioni energetiche, soprattutto ora che pare aver riallacciato i rapporti con Mosca. Un riuscito colpo di Stato militare avrebbe imposto la legge marziale per un periodo di tempo indefinito, con l’attivazione del coprifuoco e dei tribunali militari e la sospensione delle garanzie costituzionali (altro che diecimila persone arrestate!). Un regime militare, per quanto temporaneo, difficilmente sarebbe stato in grado di garantire l’ordine interno, considerando sia il cleavage fra laici e religiosi e l’ipotesi dello scoppio di una guerra civile (un cittadino su due sta con Erdogan) né quello esterno, considerando le implicazioni nel teatro siriano, le infiltrazioni jihadiste e il delicato problema curdo.




[1] Dacia Maraini, Turchia, la vendetta del comandante e l’assenza delle donne, http://www.corriere.it/esteri/16_luglio_18/vendetta-comandante-f86bdfc8-4d18-11e6-b4d6-1a2d124027e8.shtml
[2] What we know about the attempted military coup in Turkey, http://graphics.wsj.com/what-we-know-about-the-attempted-coup-in-turkey/
[5] Turkey coup attempt: General Akin Ozturk denies role in plot, http://www.bbc.com/news/world-europe-36829574
[8] Gareth Jenkins, Ergenekon, Sledgehammer, and the politics of Turkish justice: conspiraces and coincidences, MERIA, Middle East of International Affairs, Vol. 15, N. 2.
[9] Sinan Ciddi, Turkey’s September 12, 2010, referendum, MERIA, Middle East of International Affairs, Vol. 15, N. 4.
[10] Yossi Melman, Analysis: Why the Turkey coup failed and what’s likely to come next, 16 luglio 2016 http://www.jpost.com/International/Analysis-Why-the-Turkey-coup-failed-and-whats-likely-to-come-next-460561
[12] Stephen Cook, Turkey has had lots of coups. Here’s why this one failed, 16 luglio 2016, https://www.washingtonpost.com/posteverything/wp/2016/07/16/turkey-has-had-lots-of-coups-heres-why-this-one-failed/.

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